Forti, ma negative

La caccia | Trasmessa il: 01/27/2008


    Vi confesserò di non avere seguito fino in fondo la polemica tra la sindaca Moratti e l'assessore Sgarbi, due personaggi per i cui punti di vista riesco a nutrire solo un interesse assai blando. Ma mi ha colpito, devo dire, il titolo con cui la cronaca di “Repubblica” annunciava, mercoledì scorso, l'avvenuta riconciliazione, non tanto perché riferiva a tutta pagina che “Sgarbi resta e fonda un partito”, precisando in sommario che il celebre critico, a dire della Moratti, si era “impegnato a cambiare linea culturale” – nulla di nuovo, in sostanza – quanto per l'occhiello, nel quale si leggeva, tra virgolette, che “si potranno mostrare immagini forti, purché siano interpretate come negative”. Oibò. La stessa, singolare citazione compare nel testo dell'articolo, con la variante di “chiaramente indicate” al posto di “interpretate” e la precisazione, di fonte morattiana, che “il Comune non vuole vedere avvalorate né valorizzate immagini che possano avere risvolti negativi dal punto di vista sociale sulla città” ovvero, ed ecco il punto, delle “immagini blasfeme e pedofile”. Così, le rassegne di Joel Peter Witkin e Jan Sandek, oggetto iniziale della polemica, si potranno comunque tenere, anche se al Pac e non a Palazzo Reale, ma saranno dotate di “di un apparato critico e didascalico che spieghi il percorso dell'artista. Ad esempio mettendo in luce, di Witkin, il travaglio religioso.”

    Bah. Non mi azzardo neanche a chiedermi che cosa potrebbe pensare di questo genere di affermazioni uno studioso di estetica. In fondo, l'autonomia del giudizio artistico rispetto a quello morale è una conquista generalmente riconosciuta del pensiero moderno, da Kant in poi, ma, naturalmente, è solo il frutto di una convenzione alla quale chiunque, volendo, si può sottrarre. Ma come si possa pretendere di non avvalorare né valorizzare (quale che sia la differenza tra i due termini) delle immagini nel momento stesso in cui le si sceglie tra altre e si decide di farne oggetto di una pubblica rassegna in una sede culturalmente prestigiosa, be', questo è già più difficile da capire. Se ci aggiungiamo, poi, la pretesa di eliminare la contraddizione mediante il ricorso a un opportuno “apparato critico e didascalico”, è chiaro che ci stiamo avviando su un percorso, come dire, un po' scivoloso.
    “Repubblica” illustra l'articolo con la riproduzione di due opere degli artisti in questione. Quella di Saudek non pone particolari problemi: è la fotografia di due donne sommariamente vestite e molto strettamente abbracciate, ma nulla che non si possa vedere, oggi come oggi, su qualsiasi manifesto pubblicitario, e poi, probabilmente, sono una madre e una figlia. Lo scatto di Witkin è un filino più inquietante, trattandosi del ritratto di una languida bellezza adagiata su un divano, in stile Paolina Borghese, ma assai più liberale della sorella di Napoleone nell'ostentare quanto ha da ostentare, visto che indossa solo una mascherina nera e un paio di autoreggenti nere. L'interesse per questo tipo di immagini, naturalmente, si può collegare benissimo con il “travaglio religioso” del loro autore, ma ammetterete anche voi che ce ne vuole. Per complicare le cose, nella pagina accanto si riferisce della mostra, parimenti contestata, delle opere del barone Wilhelm von Gloeden, che, com'è noto, ai primi del '900 amava ritrarre dei giovinetti siciliani nudi in atteggiamenti ispirati, diceva lui, all'antichità classica, e si riproducono un paio di esempi di questa sua, un tempo famosissima, produzione. Nulla di speciale anche qui, ma, insomma, è abbastanza chiaro che su quelle forme maschili il fotografo indugia con un certo interesse: parlare di pedofilia, probabilmente, sarebbe un po' troppo, ma chi ha a cuore questo tipo di problematiche potrebbe, ovviamente, sentirsi turbato. Tuttavia è altrettanto chiaro che tutti e tre gli artisti fanno parte della storia della fotografia e che le loro opere, per i valori formali che le caratterizzano e l'interesse culturale che rivestono meritano ampiamente di essere fatte conoscere al pubblico.
    In questi casi, si sa, le alternative non sono moltissime. O si stabilisce che quelle immagini sono, per qualsiasi motivo, comunque pregevoli, e allora le si espone, o si trovano delle obiezioni adeguate di ordine estetico, morale o che altro, e non le si espone. Il compromesso trovato da Sgarbi e della Moratti, di esporle, sì, ma non a Palazzo Reale, non sembra proprio di eccelso livello. Ma è l'idea dell'apparato critico risanatore che proprio non riesce a convincere. Quale “apparato” si potrebbe affiancare, per esempio, al quasi nudo di Witkin? Un cartiglio che avverta “Attenzione! La frequentazione di signore nude in mascherina e autoreggenti comporta grossi rischi sul piano spirituale”? Delle due donne abbracciate di Saudek basterebbe esplicitare a chiare lettere la parentela (“Niente di male, ragazzi! Sono madre e figlia!”), ma alle immagini di von Gloeden andrebbe apposta una chiosa piuttosto lunghetta per spiegare che, sì, quel nobile dilettante era abbastanza corrivo a confondere l'esaltazione dell'antichità classica con quella dell'omosessualità libera (come ben sa chi abbia letto le pagine che gli ha dedicato Roger Peyrefitte), ma erano fatti suoi, il collegamento non è obbligatorio e comunque chi ambisca ad avere l'approvazione dei cardinali Bagnasco e Ruini farà meglio ad astenersi da quelle contemplazioni. Estendendo un poco il concetto, si potrà pensare di premettere al “Bacio” di Klimt (o a quello di Hayez) un'avvertenza del tipo “Si raccomanda solo ad adulti consenzienti con chiari propositi matrimoniali”, di corredare il “Déjeuner sur l'herbe” di Manet di una qualche raccomandazione sul fatto che ai picnic è meglio andarci vestiti, anche per evitare brutte infreddature, e di esporre la “Origine du monde” di Courbet dietro una sorta di sipario accessibile soltanto agli specializzandi in ginecologia. E così via: chiunque può divertirsi ad allungare, a suo piacimento, la lista.
    Chiunque naturalmente non abbia le responsabilità di sindaco o di assessore alla cultura del Comune di Milano. Perché chi si avvale di un'autorità pubblica conferitagli per limitare o orientare, in base a criteri suoi propri, le scelte artistiche o morali dei suoi amministrati, avvalorandone alcune, disvalorandone altre (se si può dire “disvalorare”) e spiegandogli, per di più, come e perché reagire alle varie proposte, si assume, in tutta evidenza, dei compiti he non gli competono. Esercita una censura e, abusando delle sue competenze, limita l'altrui libertà. E la censura, come concetto in sé, è già abbastanza sgradevole, ma non trovate anche voi che essere censurati da Sgarbi e dalla Moratti sia davvero un po' troppo?

    27.01.'08