Fondamentalismi

La caccia | Trasmessa il: 02/18/2001



Ci voleva proprio la goffaggine dell’attuale governo per offrire ai suoi avversari, oltre a tutti gli argomenti di cui già, a torto o a ragione, si fanno forti, quello aggiuntivo di una pretesa tendenza all’oscurantismo in tema di ricerca scientifica.  E ci voleva, naturalmente, un ministro ben corazzato sul piano ideologico, ma un po’ scarsino quanto a preparazione specifica, qual è l’attuale titolare dell’Agricoltura (un ministero, peraltro, che non dovrebbe esistere, essendo stato abolito dai cittadini con regolare referendum), per indirizzare contro se stesso, nonché contro il proprio partito e la coalizione di cui fa parte, una protesta, quella dei ricercatori, che era nata, in origine, in reazione alle pretese censorie della chiesa cattolica.   Ma tutti i fondamentalismi si danno la mano, per cui non c’è da stupirsi se all’antiscientismo della chiesa si è andato sommando, quasi spontaneamente, quello dei verdi.  Lo “stato di natura” alla cui conservazione si è votata larga parte di quel movimento è un’ipostasi molto simile a quelle su cui si fondano le religioni ed espone i suoi zelatori al rischio di essere altrettanto intolleranti di quanto rischiano normalmente di essere i cultori di quelle.
        Ciò premesso, è difficile sfuggire all’impressione che il dibattito di questi ultimi giorni abbia avuto un carattere, come dire, un po’ surreale.  I ricercatori, premi Nobel in testa, si sono mobilitati, con manifestazioni, dichiarazioni pubbliche e pellegrinaggi alle varie chiese politiche, in nome della libertà di ricerca.  Volevano, in pratica, che il governo non ponesse limiti alla sperimentazione sugli organismi geneticamente modificati e aumentasse, già che c’era, i finanziamenti stanziati allo scopo, perché solo la scienza può giudicare sulle proprie procedure e sulle proprie finalità, e chi è estraneo alla scienza non dispone, ovviamente, di competenze e criteri per metterci becco.  I politici, per bocca del sullodato ministro, rispondeva che la libertà di ricerca è sacra, ça va sans dire, ma che il governo ha ben il diritto di vigilare sul bene comune, evitando d’incoraggiare (e di finanziare) quelle pratiche i cui esiti non possono che portare guai per tutti.  Già, ribattevano i ricercatori, ma questo significherebbe affidare a dei non scienziati il controllo sull’attività degli scienziati e permettergli di discriminare a priori i loro obiettivi.   Ma figuriamoci, rispondevano dal ministero: d’altronde non si può pretendere che l’autorità politica abdichi a una funzione di tutela democraticamente affidatagli.  Certo, ammettevano gli altri, ma d'altronde la scienza…  Insomma, la questione finiva inesorabilmente con il mangiarsi la coda e infatti la si è risolta, se ho capito bene, con un compromesso puramente formale.  D’altronde, le prospettive di questo governo non sono tali da spingere chiunque ad accalorarsi più che tanto.  Di quanto c’è da discutere, si discuterà con più profitto con il prossimo.
        Ahimè, compromesso finale a parte, il guaio è che entrambe le linee di argomentazione sono, prese ciascuna in sé, ineccepibili.  La scienza non può accettare di essere regolata dall’esterno e il governo non può permettere che un settore qualsiasi sia affidato soltanto all'autoregolazione.  La contraddizione è insolubile.  O lo sarebbero, almeno, se entrambe le parti effettivamente si proponessero quello che affermano di proporsi.  Se la scienza non avesse altro fine che la ricerca disinteressata della verità e se la politica non mirasse ad altro che alla disinteressata difesa del bene comune.  Ma allora, probabilmente, le due logiche coinciderebbero e il dibattito stesso non avrebbe ragione di esistere.
 Il problema, naturalmente, è che non esistono né una scienza né una politica in sé.  Ci sono solo degli scienziati e dei politici, tutti individui con le loro esigenze e le loro finalità personali, ed è fin troppo evidente che la loro attività non può essere letta soltanto attraverso la categoria del disinteresse.  Tanto gli uni che gli altri, in fondo, devono mangiare e per mangiare devono tenere il debito conto delle richieste di chi detenendo elargisce.  La ricerca vuol essere indipendente e per essere indipendente chiede finanziamenti al governo, ma se il governo quattrini non ne ha, o non ne vuol dare (viviamo, in fondo, nell’epoca della delega al privato delle funzioni pubbliche), i ricercatori accetteranno, con maggiore o minore entusiasmo, di farsi finanziare dalle multinazionali, e alzi la mano chi crede che una ricerca finanziata dalle multinazionali possa essere disinteressata.  D’altronde, a questo punto, per esercitare un controllo efficace il governo con le multinazionali non dovrebbe avere proprio nulla a che fare e ancora una volta alzi la mano chi ci crede.  È nella comune soggezione alla logica del quattrino che le due parti possono trovare il terreno comune su cui imbastire i loro eterni compromessi.
Se n’era accorto, oltre mezzo secolo fa, il vecchio Brecht, che non per niente concludeva il suo Galileo, un’opera che affrontava, più o meno, la stessa tematica, con una dichiarazione di profondo pessimismo sull’autonomia della scienza.  Galileo Galilei, in quel dramma, falliva non tanto perché l’Inquisizione gli aveva vietato di render noti i risultati delle sue ricerche (perché siffatti divieti, storicamente, non possono che essere provvisori e transeunti), ma perché non era stato capace di chiarire a se stesso e ai suoi discepoli i rapporti tra il fine di quelle ricerche e la condizione generale dell’umanità.   Il suo problema non era tanto la mancanza di libertà come la si intende di solito, quanto la mancanza di coscienza politica, nel senso di un impegno morale.  Certo, alle spalle di quella condanna stavano delle problematiche un po’ più drammatiche di quelle che oggi sostanziano lo scontro tra Pecoraro Scanio e la Levi Montalcini: Brecht e il su pubblico avevano ben presente l’affare Oppenheimer e lo spettro dell’olocausto nucleare.  Ma è inevitabile che quanto nella storia si è manifestato una volta come tragedia, si ripresenti, prima o poi, come farsa.

18.02.’01