Ci voleva proprio la goffaggine dell’attuale
governo per offrire ai suoi avversari, oltre a tutti gli argomenti di cui
già, a torto o a ragione, si fanno forti, quello aggiuntivo di una pretesa
tendenza all’oscurantismo in tema di ricerca scientifica. E ci voleva,
naturalmente, un ministro ben corazzato sul piano ideologico, ma un po’
scarsino quanto a preparazione specifica, qual è l’attuale titolare dell’Agricoltura
(un ministero, peraltro, che non dovrebbe esistere, essendo stato abolito
dai cittadini con regolare referendum), per indirizzare contro se stesso,
nonché contro il proprio partito e la coalizione di cui fa parte, una protesta,
quella dei ricercatori, che era nata, in origine, in reazione alle pretese
censorie della chiesa cattolica. Ma tutti i fondamentalismi si danno
la mano, per cui non c’è da stupirsi se all’antiscientismo della chiesa
si è andato sommando, quasi spontaneamente, quello dei verdi. Lo
“stato di natura” alla cui conservazione si è votata larga parte di quel
movimento è un’ipostasi molto simile a quelle su cui si fondano le religioni
ed espone i suoi zelatori al rischio di essere altrettanto intolleranti
di quanto rischiano normalmente di essere i cultori di quelle.
Ciò
premesso, è difficile sfuggire all’impressione che il dibattito di questi
ultimi giorni abbia avuto un carattere, come dire, un po’ surreale. I
ricercatori, premi Nobel in testa, si sono mobilitati, con manifestazioni,
dichiarazioni pubbliche e pellegrinaggi alle varie chiese politiche, in
nome della libertà di ricerca. Volevano, in pratica, che il governo
non ponesse limiti alla sperimentazione sugli organismi geneticamente modificati
e aumentasse, già che c’era, i finanziamenti stanziati allo scopo, perché
solo la scienza può giudicare sulle proprie procedure e sulle proprie finalità,
e chi è estraneo alla scienza non dispone, ovviamente, di competenze e
criteri per metterci becco. I politici, per bocca del sullodato ministro,
rispondeva che la libertà di ricerca è sacra, ça va sans dire, ma che il
governo ha ben il diritto di vigilare sul bene comune, evitando d’incoraggiare
(e di finanziare) quelle pratiche i cui esiti non possono che portare guai
per tutti. Già, ribattevano i ricercatori, ma questo significherebbe
affidare a dei non scienziati il controllo sull’attività degli scienziati
e permettergli di discriminare a priori i loro obiettivi. Ma figuriamoci,
rispondevano dal ministero: d’altronde non si può pretendere che l’autorità
politica abdichi a una funzione di tutela democraticamente affidatagli.
Certo, ammettevano gli altri, ma d'altronde la scienza… Insomma,
la questione finiva inesorabilmente con il mangiarsi la coda e infatti
la si è risolta, se ho capito bene, con un compromesso puramente formale.
D’altronde, le prospettive di questo governo non sono tali da spingere
chiunque ad accalorarsi più che tanto. Di quanto c’è da discutere,
si discuterà con più profitto con il prossimo.
Ahimè,
compromesso finale a parte, il guaio è che entrambe le linee di argomentazione
sono, prese ciascuna in sé, ineccepibili. La scienza non può accettare
di essere regolata dall’esterno e il governo non può permettere che un
settore qualsiasi sia affidato soltanto all'autoregolazione. La contraddizione
è insolubile. O lo sarebbero, almeno, se entrambe le parti effettivamente
si proponessero quello che affermano di proporsi. Se la scienza non
avesse altro fine che la ricerca disinteressata della verità e se la politica
non mirasse ad altro che alla disinteressata difesa del bene comune. Ma
allora, probabilmente, le due logiche coinciderebbero e il dibattito stesso
non avrebbe ragione di esistere.
Il problema, naturalmente, è che
non esistono né una scienza né una politica in sé. Ci sono solo degli
scienziati e dei politici, tutti individui con le loro esigenze e le loro
finalità personali, ed è fin troppo evidente che la loro attività non può
essere letta soltanto attraverso la categoria del disinteresse. Tanto
gli uni che gli altri, in fondo, devono mangiare e per mangiare devono
tenere il debito conto delle richieste di chi detenendo elargisce. La
ricerca vuol essere indipendente e per essere indipendente chiede finanziamenti
al governo, ma se il governo quattrini non ne ha, o non ne vuol dare (viviamo,
in fondo, nell’epoca della delega al privato delle funzioni pubbliche),
i ricercatori accetteranno, con maggiore o minore entusiasmo, di farsi
finanziare dalle multinazionali, e alzi la mano chi crede che una ricerca
finanziata dalle multinazionali possa essere disinteressata. D’altronde,
a questo punto, per esercitare un controllo efficace il governo con le
multinazionali non dovrebbe avere proprio nulla a che fare e ancora una
volta alzi la mano chi ci crede. È nella comune soggezione alla logica
del quattrino che le due parti possono trovare il terreno comune su cui
imbastire i loro eterni compromessi.
Se n’era accorto, oltre mezzo secolo
fa, il vecchio Brecht, che non per niente concludeva il suo Galileo, un’opera
che affrontava, più o meno, la stessa tematica, con una dichiarazione di
profondo pessimismo sull’autonomia della scienza. Galileo Galilei,
in quel dramma, falliva non tanto perché l’Inquisizione gli aveva vietato
di render noti i risultati delle sue ricerche (perché siffatti divieti,
storicamente, non possono che essere provvisori e transeunti), ma perché
non era stato capace di chiarire a se stesso e ai suoi discepoli i rapporti
tra il fine di quelle ricerche e la condizione generale dell’umanità.
Il suo problema non era tanto la mancanza di libertà come la si
intende di solito, quanto la mancanza di coscienza politica, nel senso
di un impegno morale. Certo, alle spalle di quella condanna stavano
delle problematiche un po’ più drammatiche di quelle che oggi sostanziano
lo scontro tra Pecoraro Scanio e la Levi Montalcini: Brecht e il su pubblico
avevano ben presente l’affare Oppenheimer e lo spettro dell’olocausto
nucleare. Ma è inevitabile che quanto nella storia si è manifestato
una volta come tragedia, si ripresenti, prima o poi, come farsa.
18.02.’01