Tutto è bene quel che finisce bene.
Dopo quattro anni di berlusconismo puro e duro, quattro durissimi
anni di risse e mobilitazioni ideologiche, di insulti all’opposizione,
di monopolio governativo delle comunicazioni pubbliche e di rifiuto a oltranza
di ogni tentazione di correttezza, l’Italia ha trovato – chi lo avrebbe
mai detto – una sua sofferta solidarietà nazionale. E l’ha trovata,
come alla fine dei lontani anni ’70, in nome della fermezza. Sull’impegno
rinnovato a non trattare con il terrorismo e, in particolare, a non pagare
riscatti di sorta per i concittadini rapiti si è cementato, con le reciproche
manifestazioni di stima seguite al discorso di Berlusconi in Senato, mercoledì,
il nuovo clima bipartisan dei rapporti parlamentari.
Oh
dio. Vedremo se dura, e, comunque, si tratta, a voler cercare il
pelo nell’uovo, di una fermezza un po’ barcollante, fondata com’è su
un’affermazione che, per quanto doverosamente ripetuta da tutti, nessuno
riesce a prendere davvero sul serio, visto che sono in pochi a dubitare
del fatto che difficilmente Giuliana Sgrena sarebbe stata liberata senza
che una qualche somma passasse, in un modo o nell’altro, di mano, ma quel
che conta è il principio e in casi come questi la politica italiana è sempre
pronta a fare finta di niente. Anche la fermezza dei tempi di Andreotti
e Berlinguer – forse lo ricorderete – era soprattutto di facciata,
e, come ha ricordato lo stesso Andreotti in questi giorni, dietro quella
facciata poteva succedere praticamente di tutto. Si trattava, diciamo
così, di una sorta di fermezza ad excludendum, determinata essenzialmente
dalla volontà di mantenere il gioco quanto possibile nelle proprie mani,
escludendone outsider sgraditi o terzi incomodi vari, e a questa funzione
adempiva benissimo. Il ceto politico nel suo complesso si era preso,
in quegli anni, una bella paura, e aveva bisogno soprattutto di celebrare
la solidarietà al proprio interno. Per quanto riguardava le tecniche
e le strategie con cui opporsi concretamente alle varie, possibili minacce
eversive, il discorso era molto più aperto e ne vennero adottate, in effetti,
le più diverse, manifestando per i problemi di fermezza e rigore morale
un’indifferenza che, a tanti anni di distanza, continua ad apparirci scandalosa.
Oggi
la situazione, naturalmente, è tutta diversa. Ma è strana, ammetterete,
la fretta con cui si è giunti, in seguito alla chiusura dignitosa, ma non
certo esaltante, del triste incidente in cui ha perso la vita Renato Calipari,
a modificare i protocolli verbali e comportamentali cui le forze politiche
si affidavano da tutta una legislatura. In fondo, Berlusconi, per quanta
buona volontà possa averci messo, non ha fatto niente di particolare.
Convocare l’ambasciatore americano ed esigere delle scuse formali (senza
peraltro ottenerle) poteva sembrare insolito per chi avesse sott’occhio
i comportamenti passati del soggetto, ma era il minimo che qualsiasi governo
potesse fare in quelle circostanze e l’aver ottenuto dagli americani la
partecipazione di due rappresentanti a una commissione di inchiesta la
cui direzione resta ben ferma nelle mani degli alti comandi statunitensi
(che avranno quindi, secondo l’uso di quel paese, il raro privilegio di
giudicare se stessi) non è, a pensarci bene, un risultato tanto eclatante.
Quanto alle piacevolezze epistolari tra il “caro Carlo” e il “caro
George”, è difficile considerarle qualcosa d’altro che un cortese scambio
di banalità. Il vero problema era e resta quello della partecipazione
italiana alla guerra e alla occupazione, una partecipazione che, oltre
a essere ovviamente fonte di pericolo, sembra ormai essere assunta
a causa principale dei mali che pretende di risolvere, e su questo piano
il governo non ha detto né fatto assolutamente nulla di nuovo. Sostenere
che il presidente del consiglio ha attinto, nell’occasione, a una nuova
dignità da statista è una di quelle enfatizzazioni giornalistiche da cui
ogni persona di buon senso, conoscendo il tipo, dovrebbe tenersi accuratamente
alla larga.
Berlusconi,
tuttavia, ci ha messo della buona volontà e l’opposizione gliene ha dato
atto. L’una e l’altra parte hanno compiuto uno sforzo di riconoscimento
reciproco le cui conseguenze, chissà, potranno cambiare il nostro quadro
ideologico. Non saprei dirvi, naturalmente, se anche questa inedita
forma di solidarietà nazionale non abbia lo scopo di escludere qualcuno,
di sanzionare una esclusività che si ha ragione di sentire minacciata.
Probabilmente no. Ma è certo che un bel po’ di paura,
quando si è saputo, dieci giorni fa, della sparatoria sulla strada dell’aeroporto
di Baghdad se la sono presa tutti. Era la stessa paura che si rifletteva,
a botta ancora caldissima, sui fondi dei quotidiani la mattina dopo, unificando
nella stessa excusatio non petita le grandi testate del giornalismo internazionale
e le loro firme più prestigiose. Era la paura dell’antiamericanismo,
dello scoppio “irrazionale” nella opinione pubblica di un sentimento
ostile verso questi nostri burbanzosi alleati, con la prospettiva agghiacciante
del diffondersi a macchia d’olio del rifiuto di considerarli ancora tali.
Calma e gesso, raccomandavano anticipatamente i Romano, gli Scalfari,
i Galli della Loggia, senza che da nessuna parte, non foss’altro perché
ne era mancato il tempo, si levasse il benché minimo fiato di ostilità
verso gli Stati Uniti. Ci hanno sparato addosso, ma non vuole dir
niente. Teniamo i nervi a posto, protestiamo pure quanto vogliamo,
ma non lasciamoci prendere dalla tentazione dell’antiamericanismo. E
si capisce: si tratta, e non da oggi, dell’unica tentazione che il ceto
politico italiano non si può permettere, perché sul rapporto con la potenza
dominante ha fondato, da sempre, le proprie fortune e la propria legittimazione.
È
stato per questo, probabilmente, che il governo si è dato, nei suoi limiti,
una mossa. Ed è per questo che il sistema giornalistico in blocco
ha dedicato una settimana e mezza a una serie di ingegnose variazioni sul
concetto di “tragico incidente”, come se la ricostruzione nei particolari
dell’episodio fosse più importante della riflessione sul suo significato.
Perché, in definitiva, a prescindere dalla velocità e dalle caratteristiche
del mezzo che trasportava i nostri connazionali, dal tipo di comunicazioni
telefoniche che essi hanno scambiato e con chi, dal calibro e dal numero
dei colpi esplosi, dell’età e della competenza dei militari coinvolti
e via dicendo, il dato importante è rappresentato dal fatto che quel tratto
di strada era controllato dall’esercito americano, i cui responsabili,
per motivi di loro esclusiva pertinenza, avevano disposto che, in certe
circostanze, si sparasse. Che è un’ovvia conseguenza del fatto
che in Iraq la guerra la fanno loro e non altri, con i loro obiettivi e
secondo i propri criteri, criteri e obiettivi cui chiunque accetti la situazione
è tenuto a sottostare. Protestare per un episodio che ci ha coinvolti,
una volta che si è dato il proprio consenso all’operazione nel suo complesso,
è un esercizio di straordinaria futilità.
Tanto
è vero che la fermezza di cui parlavamo all’inizio si estrinsecherà, stringi
stringi, nella volontà di chiudere gli occhi. Stabilire, come ha
dichiarato Berlusconi, che in Iraq non potrà, in pratica, andarci più nessuno,
se non sotto stretto controllo protettivo da parte dell’esercitò, significa,
in primo luogo, vietare ogni forma di giornalismo di guerra. Meno
reportage giungeranno da quel paese martoriato, meno informazioni si avranno
sulla condotta delle operazioni militari, meglio sarà per tutti. E
basta già questo per capire che dalla tanto vantata commissione di inchiesta
non è proprio il caso di aspettarsi un granché.
13.03.’05