Falsificazioni

La caccia | Trasmessa il: 04/14/2002




È da qualche tempo che mi capita sempre più spesso (anzi, in un paio di occasioni devo avervene già accennato) di immalinconirmi di fronte ai manifesti pubblicitari.  Nella maggior parte dei casi è perché proprio non li capisco, nel senso che dalla loro combinazione di parole e immagini non riesco assolutamente a evincere quello che mi si vuole dire e da questa incapacità, che non sarà forse il sintomo di una forma precoce del morbo di Alzheimer, ma denota comunque una prontezza mentale minore di quella che auspicherei, mi sento inevitabilmente frustrato.  Non sempre è possibile cavarsela attribuendo il difetto di comunicazione al rumore di fondo o all’inettitudine di chi ha concepito il messaggio.  E non vale consolarsi, naturalmente, pensando che certi messaggi meno li si capisce meglio è.

       Poche cose, comunque, mi hanno tanto intristito negli ultimi mesi quanto  il manifesto di quella compagnia aerea che affida la pretesa di essere considerata, chissà in base a quali parametri, “rivoluzionaria” all’esibizione di un’immagine del Che Guevara.  Un Che, beninteso, riveduto e corretto, che, dell’iconografia tradizionale, conserva soltanto il basco (senza la stella rossa) e il sigaro Avana, un Che abbronzato, più che dal sole della Sierra, dalla luce delle apposite lampade, pettinato all’ultima moda  in una perversa imitazione dell’originaria scapigliatura e inguainato, come se non bastasse,  in un attillato completo fumo di Londra, con tanto di camicia immacolata, cravatta a tinta unita e gemelli da polso, con un biglietto della compagnia in questione in vista nel taschino della giacca.  Una specie di Guevara dott. Ernesto, insomma, in una versione paleo-yuppy (o neo-berlusconionana, fa lo stesso) che non può che gridare vendetta al cospetto degli dei ed è destinata inevitabilmente a deprimere quanti, se non altro in memoria dei miti della propria giovinezza, portano ancora un po’ di rispetto alla sua figura.

       È vero, d’altronde, che nei trentacinque anni che ci separano dalla sua morte, la figura e il ricordo del Che hanno subito le trasformazioni più incredibili.  A Cuba, dove se ne onora la memoria, gli hanno eretto un mausoleo e ne hanno piazzato il ritratto sulle banconote da tre pesos, due forme di omaggio che non so quanto lui avrebbe gradito, anche se Fidel Castro ha confidato a un giornalista italiano di vederlo spesso in sogno e di chiedergli, e ottenerne, assistenza e consiglio.  In un certo numero di chiese dell’America latina la sua effigie è identificabile nei cori dei santi e degli angeli, o, a seconda dell’orientamento teologico dell’episcopato, nelle legioni dei demoni e dei dannati.  In quelle regioni della Bolivia rurale che hanno visto la sua ultima, tragica avventura, se ne invoca il nome per scongiurare le malattie del bestiame.  E tutti sappiamo quale uso poliedrico e spregiudicato (e comunque di segno piuttosto mercantile) si sia fatto, in tutto il mondo, ma particolarmente qui da noi in Europa, della celebre fotografia che Alberto Diaz Korda gli scattò il 5 marzo 1960, mentre partecipava ai funerali delle vittime dell’esplosione di un cargo francese nel porto della capitale.

Si potrebbe osservare che anche quell’immagine, destinata a figurare, com’è noto, su un numero incredibile di poster, distintivi, magliette e via andare e a subire più rielaborazioni grafiche di quella della Gioconda, fu il frutto, in definitiva, di una sorta di manipolazione, perché il fotografo la ottenne isolando dallo sfondo  il primo piano del soggetto ed eliminando le figure che l’affiancavano, permettendo in tal modo ai futuri fruitori di vedere il prototipo dell’eroico guerrigliero in quella che, a voler essere proprio precisi, era l’istantanea del presidente della Banca centrale di Cuba intervenuto a una pubblica cerimonia, ma questo, naturalmente, conta assai poco.  Korda, che era presente alle esequie come fotografo di “Revolución”, un periodico semiufficiale, non soddisfece, forse, le esigenze dei suoi committenti, che infatti si guardarono bene dal pubblicare quella foto (che sarebbe stata riscoperta e resa famosa, anni dopo, da Giangiacomo Feltrinelli), ma seppe cogliere ed esprimere un certo alone romantico, tutt’altro che estraneo alla personalità di un uomo che all’impegno politico non avrebbe mai sacrificato la propria innata generosità.  Come tutti i veri ritratti, la sua è soprattutto una interpretazione.

Il quasi fotomontaggio pubblicitario da cui siamo partiti, al contrario, non interpreta né esprime proprio niente.  È solo un falso, un falso che più falso non si può.  E visto che il Che, dopo tutto, in nome delle sue convinzioni andò coscientemente a farsi ammazzare, ripugna davvero vedere come oggi si falsifichi la sua immagine per farne un uso che non ha alcun riferimento con la sua vita e la sua leggenda.  Perché, se non gli sarebbe certo spiaciuta la prospettiva di essere un simbolo, magari un po’ sciupacchiato, per la “gioventù ribelle” del mondo, come si diceva allora, è dubbio che sarebbe stato interessato all’idea di fare il testimonial per una oscura compagnia di aviazione italiana.

Ahimè.  Di giovani ribelli oggi non c’è certo abbondanza e le stesse parole di cui si nutriva la loro ribellione sembrano tristemente usurate.   Allora credevamo, magari con un eccesso di ingenuità, che il dovere di ogni rivoluzionario fosse quello di fare la rivoluzione: oggi quel termine viene utilizzato per un banalissimo gioco di parole su un’affiche pubblicitaria.  Pazienza.  Il capitale, come il Che, da quel serio teorico marxista che era, sapeva benissimo, non ammette né rispetto né verecondia, e i suoi servi, pur di fare quattrini, sono disposti a fare commercio di tutto, comprese le immagini delle proprie vittime e dei propri nemici.  Naturalmente questo è il motivo per cui, per quanti quattrini riescano ad accumulare, resteranno sempre dei servi.  A questa consapevolezza, per quanto sia difficile trarne un’autentica consolazione, conviene restare solidamente aggrappati..


14.04.’02