Facili profezie

La caccia | Trasmessa il: 05/04/2003




Certe volte è davvero facile essere profeti.  Lo scorso lunedì, per esempio, appena saputo della scomparsa di Ciccio Ingrassia, sarei stato disposto a scommettere tutte le mie (scarse) ricchezze che i titoli del giornali, il giorno dopo, avrebbero ricordato, di lui, soprattutto la collaborazione con Federico Fellini e, come s’è visto, se qualcuno fosse stato tanto ingenuo da accettare la scommessa avrei vinto alla grande, ma questo non significa che io sia dotato di una particolare capacità di prevedere il futuro.  Il fatto è che il giornalismo ha le sue regole, una delle quali vuole che i titoli si costruiscano, se appena è possibile, a partire dall’imprevisto e dal contraddittorio, e da questo punto di vista la presenza di un comico così popolare – diciamo pure così volgare – nell’opera di un campione della cinematografia d’arte aveva lo stesso irresistibile appello del classico uomo che morde il cane.  Di fatto, non tutti hanno intitolato, come il “Corriere” in prima pagina, “Addio a Ciccio, la ‘spalla’ che incantò Fellini”, ma il concetto è stato ribadito dovunque senza risparmio.  Per citare il critico della “Unità”, che pure, tra i tanti, è quello che più si è impegnato in una valutazione complessiva della figura dell’attore, Ingrassia, che pure “è stato un grande comico, solo un po’ più lieve dell’inseparabile Franco Franchi”,  resterà “nella storia del cinema per quella scena di Amarcord in cui, in cima a un albero, grida ‘voglio una donna’”.  E così sia.

       Naturalmente la questione non è solo di tecnica giornalistica.   Bisogna fare i conti anche con come è strutturata la cultura italiana, che, pur in questa nostra epoca di produzione e consumi culturali di massa, sta sempre ben attenta a non mescolare i livelli di valore riconosciuti, a distinguere tra le espressioni “alte”, degne dell’interesse delle persone dabbene, e le manifestazioni più correnti, destinate, in sostanza, al consumo del popolaccio ignorante, salvo a concedere loro la possibilità di un parziale riscatto se qualche frequentatore della sfera superiore si sarà degnato di investirle del suo interesse.  Così, della letteratura gialla si ricorderanno soprattutto le prove di uno Sciascia, di un Gadda, di un Borges, o di quegli autori, come Chandler  e Camilleri, che più si sono sforzati di attenersi ai canoni della narrativa “pura”, anche se spesso i risultati di questi sforzi, in un senso o nell’altro, finiscono per essere un po’ imbarazzanti e nessun lettore sano di mente si sognerebbe di anteporre, per citare due personaggi costruiti più o meno con gli stessi elementi, don Isidro Parodi a Nero Wolfe.   E a un Ingrassia, che pure si è bravamente battuto per tutta una lunga carriera nelle file del teatro d’avanspettacolo e del cinema popolare, che è stato un grande interprete di serie zeta, un campione insuperato di battutacce e sberleffi, i suoi critici post mortem sono disposti a riconoscere una legittima dignità di artista in nome di un accostamento casuale con un regista “serio”, o almeno riconosciuto per tale, come se una sola scena con Fellini bastasse a redimere gli oltre centocinquanta titoli “volgari” interpretati con Franco Franchi.  Qualcuno ha cercato di strafare, ricordando anche la loro comparsa in Kaos di Paolo e Vittorio Taviani, ma il caso, evidentemente, non è lo stesso.

       Io, francamente, non so se Ciccio Ingrassia passerà alla storia del cinema.  So solo che, negli anni ’60, quando, con l’amico Franco, era al culmine della forma e della carriera, i loro film mi piacevano molto.  Erano opere, naturalmente, in cui l’eccellenza degli interpreti faceva a pugni con le più incredibili sciatterie di regia e produzione e che esibivano, per di più, una dialettica culturale alquanto semplificata e un sistema di convenzioni di fondo un po’ grossolano, ma, in un modo o nell’altro, si lasciavano guardare.  Come macchine narrative, funzionavano abbastanza bene e spesso riuscivano a dare un’immagine non troppo inverosimile di quell’Italia sconquassata e vitale, non ancora passata al tritatutto della televisione.  Certi colleghi attribuivano il mio interesse in merito a una sorta di snobismo alla rovescia o, i più colti, a un puntiglioso rispetto dei precetti di quel movimento di decultura, di cui a volte si sentiva parlare, ma non riuscivano a impressionarmi.  In effetti, ricordo ancora con piacere certi pomeriggi in cui, se appena ci era possibile, ci infilavamo, io, l’Accame qui presente e certi amici ancora meno rispettabili di noi, nei locali di terza visione in cui si proiettavano I due sanculotti o Brutti di notte.  Non ho mai avuto, francamente, di che pentirmene.

       Ma questi, naturalmente, sono solo ricordi, che valgono per quel che valgono.  Il vero problema è quello di capire come mai quei loro film siano stati sottoposti a una rimozione così radicale che, dovendosene oggi lodare gli interpreti, li si loda per qualcosa d’altro.  In fondo, altri prodotti nati con analoghe caratteristiche, che so, i film di Totò, o quelli di Jerry Lewis, sono stati accettati, dopo un adeguato periodo di quarantena, nel circuito culturale normale e oggi se ne fanno rassegne e ci si scrivono tesi: quelli con Franco e Ciccio, Kaos e Amarcord a parte, no.   Sarà stato, forse, perché quei due erano troppo bravi e nello specchio deformante, ma fino a un certo punto, delle loro farse e delle loro parodie ci si rispecchiava malvolentieri.  Due personaggi così volgari, così apertamente ed esageratamente famelici, assatanati e qualunquisti, due interpreti tanto irrispettosi e indifferenti alle categorie in uso da prendere per i fondelli con lo stesso frenetico impegno Buñuel, l’Ultimo tango a Parigi, Sergio Leone e l’agente 007, due macchiette così capaci di toccare, come per caso, i punti dolenti del costume nazionale potevano, con rispetto parlando, rompere abbastanza i coglioni.  Onde la necessità di purificarne la vis comica con una lunga serie di comparsate televisive, come quelle cui entrambi si sono sottoposti negli anni ’80, e di sistemarli, una volta per tutte, nell’Olimpo dei grandi attori, quelli che piacciono anche ai Fellini e si possono consegnare senza rimpianti alle cure degli storici del cinema.  È proprio vero che sono fortunate le arti che non hanno bisogno di storia.


04.05.’03