Certe volte è davvero facile essere profeti. Lo scorso lunedì, per
esempio, appena saputo della scomparsa di Ciccio Ingrassia, sarei stato
disposto a scommettere tutte le mie (scarse) ricchezze che i titoli del
giornali, il giorno dopo, avrebbero ricordato, di lui, soprattutto la collaborazione
con Federico Fellini e, come s’è visto, se qualcuno fosse stato tanto
ingenuo da accettare la scommessa avrei vinto alla grande, ma questo non
significa che io sia dotato di una particolare capacità di prevedere il
futuro. Il fatto è che il giornalismo ha le sue regole, una delle
quali vuole che i titoli si costruiscano, se appena è possibile, a partire
dall’imprevisto e dal contraddittorio, e da questo punto di vista la presenza
di un comico così popolare – diciamo pure così volgare – nell’opera
di un campione della cinematografia d’arte aveva lo stesso irresistibile
appello del classico uomo che morde il cane. Di fatto, non tutti
hanno intitolato, come il “Corriere” in prima pagina, “Addio a Ciccio,
la ‘spalla’ che incantò Fellini”, ma il concetto è stato ribadito dovunque
senza risparmio. Per citare il critico della “Unità”, che pure,
tra i tanti, è quello che più si è impegnato in una valutazione complessiva
della figura dell’attore, Ingrassia, che pure “è stato un grande comico,
solo un po’ più lieve dell’inseparabile Franco Franchi”, resterà
“nella storia del cinema per quella scena di Amarcord in cui, in cima
a un albero, grida ‘voglio una donna’”. E così sia.
Naturalmente la questione non è solo di tecnica
giornalistica. Bisogna fare i conti anche con come è strutturata
la cultura italiana, che, pur in questa nostra epoca di produzione e consumi
culturali di massa, sta sempre ben attenta a non mescolare i livelli di
valore riconosciuti, a distinguere tra le espressioni “alte”, degne dell’interesse
delle persone dabbene, e le manifestazioni più correnti, destinate, in
sostanza, al consumo del popolaccio ignorante, salvo a concedere loro la
possibilità di un parziale riscatto se qualche frequentatore della sfera
superiore si sarà degnato di investirle del suo interesse. Così,
della letteratura gialla si ricorderanno soprattutto le prove di uno Sciascia,
di un Gadda, di un Borges, o di quegli autori, come Chandler e Camilleri,
che più si sono sforzati di attenersi ai canoni della narrativa “pura”,
anche se spesso i risultati di questi sforzi, in un senso o nell’altro,
finiscono per essere un po’ imbarazzanti e nessun lettore sano di mente
si sognerebbe di anteporre, per citare due personaggi costruiti più o meno
con gli stessi elementi, don Isidro Parodi a Nero Wolfe. E a un
Ingrassia, che pure si è bravamente battuto per tutta una lunga carriera
nelle file del teatro d’avanspettacolo e del cinema popolare, che è stato
un grande interprete di serie zeta, un campione insuperato di battutacce
e sberleffi, i suoi critici post mortem sono disposti a riconoscere una
legittima dignità di artista in nome di un accostamento casuale con un
regista “serio”, o almeno riconosciuto per tale, come se una sola scena
con Fellini bastasse a redimere gli oltre centocinquanta titoli “volgari”
interpretati con Franco Franchi. Qualcuno ha cercato di strafare,
ricordando anche la loro comparsa in Kaos di Paolo e Vittorio Taviani,
ma il caso, evidentemente, non è lo stesso.
Io, francamente, non so se Ciccio Ingrassia
passerà alla storia del cinema. So solo che, negli anni ’60, quando,
con l’amico Franco, era al culmine della forma e della carriera, i loro
film mi piacevano molto. Erano opere, naturalmente, in cui l’eccellenza
degli interpreti faceva a pugni con le più incredibili sciatterie di regia
e produzione e che esibivano, per di più, una dialettica culturale alquanto
semplificata e un sistema di convenzioni di fondo un po’ grossolano, ma,
in un modo o nell’altro, si lasciavano guardare. Come macchine narrative,
funzionavano abbastanza bene e spesso riuscivano a dare un’immagine non
troppo inverosimile di quell’Italia sconquassata e vitale, non ancora
passata al tritatutto della televisione. Certi colleghi attribuivano
il mio interesse in merito a una sorta di snobismo alla rovescia o, i più
colti, a un puntiglioso rispetto dei precetti di quel movimento di decultura,
di cui a volte si sentiva parlare, ma non riuscivano a impressionarmi.
In effetti, ricordo ancora con piacere certi pomeriggi in cui, se
appena ci era possibile, ci infilavamo, io, l’Accame qui presente e certi
amici ancora meno rispettabili di noi, nei locali di terza visione in cui
si proiettavano I due sanculotti o Brutti di notte. Non ho mai avuto,
francamente, di che pentirmene.
Ma questi, naturalmente, sono solo ricordi,
che valgono per quel che valgono. Il vero problema è quello di capire
come mai quei loro film siano stati sottoposti a una rimozione così radicale
che, dovendosene oggi lodare gli interpreti, li si loda per qualcosa d’altro.
In fondo, altri prodotti nati con analoghe caratteristiche, che so,
i film di Totò, o quelli di Jerry Lewis, sono stati accettati, dopo un
adeguato periodo di quarantena, nel circuito culturale normale e oggi se
ne fanno rassegne e ci si scrivono tesi: quelli con Franco e Ciccio, Kaos
e Amarcord a parte, no. Sarà stato, forse, perché quei due erano
troppo bravi e nello specchio deformante, ma fino a un certo punto, delle
loro farse e delle loro parodie ci si rispecchiava malvolentieri. Due
personaggi così volgari, così apertamente ed esageratamente famelici, assatanati
e qualunquisti, due interpreti tanto irrispettosi e indifferenti alle categorie
in uso da prendere per i fondelli con lo stesso frenetico impegno Buñuel,
l’Ultimo tango a Parigi, Sergio Leone e l’agente 007, due macchiette
così capaci di toccare, come per caso, i punti dolenti del costume nazionale
potevano, con rispetto parlando, rompere abbastanza i coglioni. Onde
la necessità di purificarne la vis comica con una lunga serie di comparsate
televisive, come quelle cui entrambi si sono sottoposti negli anni ’80,
e di sistemarli, una volta per tutte, nell’Olimpo dei grandi attori, quelli
che piacciono anche ai Fellini e si possono consegnare senza rimpianti
alle cure degli storici del cinema. È proprio vero che sono fortunate
le arti che non hanno bisogno di storia.
04.05.’03