È interessante che la Comunità ebraica
milanese, a quanto riferisce “Repubblica” del 28 novembre, si sia, come
si dice, “spaccata”, aprendo un dibattito sulle dichiarazioni del suo
portavoce, Yasha Reibman, che in una precedente intervista allo stesso
giornale aveva accusato in blocco la sinistra italiana (ed europea) di
antisemitismo. L’accusa, per la precisione, era stata quella, più
specifica, di “antisionismo”, ma si sa che nel mondo ebraico, con qualche
eccezione, i due concetti tendono a sovrapporsi e che la tendenza a bollare
di antisemitismo chiunque si opponga, in un modo o nell’altro, alla politica
dello stato di Israele vi è largamente diffusa. Il fatto che oggi
pubblicamente se ne discuta è dunque un sintomo confortante anche per chi,
come noi, in un dibattito del genere non ha ovviamente titoli per intervenire.
Personalmente,
temo che il problema, finora, sia stato clamorosamente mal posto. Che
in Italia serpeggi, a onta di tutte le ottimistiche dichiarazioni in contrario,
una certa vena di antisemitismo, mi sembra, purtroppo, molto probabile,
In fondo il nostro è il paese in cui prospera e ha sede l’organizzazione
che l’antisemitismo ha, storicamente, inventato – la chiesa cattolica
– e quello in cui sono stati inventati i ghetti, una istituzione che in
tutto il mondo, a nostra vergogna, si definisce con un nome italiano. La
lotta contro l’antisemitismo si è identificata a lungo con quella per
lo stato laico e non è un caso se nelle file della parte politica che più
si è occupata di questo problema – quella di tradizione radicale e giacobina
– i militanti di origine ebraica hanno avuto un ruolo assai importante.
Di fatto, la sinistra italiana, almeno fino all’ultima guerra, è
stata spesso accusata dai suoi nemici di filoebraismo, anche se si impiegavano,
allora, termini politicamente molto meno corretti.
Le
leggi razziali, la guerra, l’Olocausto, la nascita dello Stato di Israele,
la questione palestinese e tutto il resto hanno sconvolto, e forse cambiato,
tutto. Salvo, probabilmente, l’identità profonda delle parti in
causa. Io, vi dirò, non posso fare a meno di pensare che qualsiasi
dibattito sull’antisemitismo sia soprattutto, per gli uni e per gli altri,
una riflessione di tipo, diciamo così, identitario. L’accusa di
fare il gioco di Hitler per chi, a sinistra, critica Sharon (o, quanto
a questo, Perez e buona parte dei governanti israeliani dal 1948 a oggi)
non è inaccettabile soltanto per il parallelo che esprime, ma perché, in
sostanza, vorrebbe costringere coloro cui è indirizzata a rinunciare a
una parte di sé, a quella convinzione laica per cui una cosa è la politica
degli stati e dei governi e un’altra la dignità delle varie fedi, opinioni,
culture, usanze e credenze diffuse tra i popoli relativi. È, in definitiva,
una specie di ricatto, uno di quegli “o con me o contro di me” globali
che abbiamo altre volte sperimentato e che, sempre, come nel caso del maccartismo,
o in quello della politica della “fermezza” negli anni di piombo, sono
serviti a ridurre il patrimonio di libertà di coloro cui venivano intimati.
Anche a questo aut aut, naturalmente, non vogliamo piegarci: la pretesa
di dire quello che pensiamo di Sharon e dei suoi senza subire definizioni
insultanti è anche un dovere che abbiamo verso la tradizione del “libero
pensiero”.
Naturalmente
il problema non vale solo per noi. Ciascuno definisce la propria
identità con gli elementi che preferisce e deve essere disposto – ovviamente
– ad assumersene le relative responsabilità. È un discorso che potrebbe
portarci lontano e non è questo, ovviamente, il momento di affrontarlo.
Ma proprio perché l’antisemitismo è una delle grandi vergogne dell’umanità,
bisognerebbe sforzarsi di evitare di farne uno dei tanti facili –ismi
che ci si attribuisce l’un l’altro nella polemica quotidiana. Anche
le parole si logorano e che questo termine sia logorato non serve proprio
a nessuno.
30.11.’03