Facce

La caccia | Trasmessa il: 05/07/2001



Tra una settimana si vota e già stanno sparendo, dai muri e dai tabelloni, le facce dei candidati che hanno scelto il fotocolor come strumento di autopromozione.  Ai loro volti sorridenti e speranzosi si sovrappongono, ormai, i simboli e gli imperativi delle rispettive organizzazioni, che, riprendendosi quasi di forza gli spazi disponibili per l’affissione, segnalano la volontà di imporre, anche in termini di preferenze, il proprio sistema di priorità.
        Non stupitevene troppo, ma vi confesso che, un po’, mi dispiace.  A quelle fronti spaziose, a quei profili alabastrini, a quelle labbra di corallo mi ero, se non proprio affezionato, abituato.   In fondo, lanciandomi il loro muto appello, mi hanno fissato per giorni e giorni, sottolineando bizzarramente i miei percorsi e i miei andirivieni.   E per giorni e giorni io ho ricambiato il loro sguardo cieco, chiedendomi non tanto perché questi concittadini desiderassero così ardentemente un posto di senatore, deputato, consigliere comunale o, faut de mieux, di consigliere di zona (questo posso capirlo), quanto perché affidassero tante speranze all’esibizione della propria effigie facciale.  È un problema, in realtà, che mi tormenta a ogni appuntamento con l’urna, tanto è vero che ho il vago ricordo di avervene già parlato, anni fa, ai tempi della prima repubblica: com’è possibile, corpo di bacco, che tante brave persone, con la faccia che si ritrovano, credano che basti esporre una propria fotografia sui cantoni e sui cassonetti per destare nella mobile turba degli elettori il desiderio di innalzarle ai pubblici onori?
        Non fraintendetemi.  Sulla necessità e l’utilità di una campagna elettorale qualsiasi sono abbastanza d’accordo anch’io e capisco che chi non ha libero accesso ai mezzi di comunicazione di massa, propri o altrui, debba arrangiarsi come può.  Non mi sognerei mai di criticare quanti onestamente utilizzano i manifesti che fanno affiggere per inviare all’elettore un qualche messaggio.  Capisco tutti coloro che guarniscono il proprio ritratto, più o meno abilmente ritoccato, con slogan e promesse di varia natura, anche se ripiegano sugli slogan più banali, come quelli che assicurano impegno, onesta e competenza (che, in fondo, dovrebbero essere dei prerequisiti richiesti a chiunque) o si cacciano nei giochi di parole più ambigui, come il motto di chi promette di essere, se eletto, “un amico in comune”.  E siccome so che i messaggi non devono essere necessariamente verbali, fraternizzo di cuore con chi si è sforzato di organizzare graficamente il proprio manifesto in modo da esprimere, comunque, un qualche valore.  Non ho niente contro il signore che si è fatto fotografare ritto accanto al leader nazionale del suo partito, tanto per segnalare una familiarità che l’elettore potrà considerare una garanzia ideologica, o contro la giovinetta  che, non potendo forse accedere al leader in questione, ha ripiegato su una foto che la vede quasi abbracciata al proprio sambernardo, perché anche l’amore per gli animali è virtù da prendere in considerazione.   Posso comprendere, anche se non necessariamente condividere, il punto di vista di quello che si è fatto fotografare con addosso un berretto di foggia vagamente militare: mai messaggio, anzi, mi è sembrato più chiaro.  E non mi sentirei di censurare neanche quelle due o tre signore che, convinte – senza dubbio – di essere tanto belle, si esibiscono sui propri manifesti con sorrisi e atteggiamenti degni di una diva cinematografica degli anni ’50: anche la convinzione per cui in una donna va cercata, prima di tutto, la bellezza può essere considerata un valore e se non si tratta di un valore particolarmente progressivo, va detto che particolarmente progressivo non è neanche il partito in cui militano quelle creature.
        Ma gli altri?  Quelli che non inseriscono slogan, non sfoggiano familiarità importanti, non si appoggiano a simbolismi riconosciuti, non si rifanno a canoni predefiniti, ma esibiscono, puramente e semplicemente, la propria faccia, su di loro cosa possiamo dire?   È possibile che credano davvero di avere dei lineamenti così espressivi, così accattivanti, così fascinosi da guidare ipso facto le scelte degli elettori?  Che siano innamorati a tal punto della propria immagine da credere che tanto amore debba essere, di necessità, condiviso dai passanti, a piedi o motorizzati?  Che non si rendano conto che la Natura, nella maggior parte dei casi, ha dato loro dei sembianti affatto normali, ma che lo sforzo di agghindarsi e mettersi in posa per l’occasione elettorale finisce per conferire a quelle fattezze un che di vagamente grottesco, una qualità estetica che metterebbe in imbarazzo persino le loro riverite madri?
        Mah.  Nessuno è buon giudice di se stesso e questo, naturalmente, vale anche per i candidati alle elezioni politiche e amministrative.  E poi, quando si tratta di raffigurazioni di sé, scattano sempre dei processi incontrollati: a volte ho l’impressione che l’umanità, nei cinque o sei millenni da che traccia immagini dei membri della propria specie e di quelle altrui non abbia mai superato la dimensione magica in cui, a quanto si dice, si inscriveva ab origine quell’attività.  Se i nostri remoti antenati erano convinti che l’immagine di un bufalo graffita sulle pareti di una caverna avesse il potere di moltiplicare le mandrie di bufali su cui facevano conto come riserva alimentare, perché certi loro discendenti non dovrebbero credere, sotto sotto, che la propria immagine affissa sui muri abbia il potere di moltiplicare gli elettori?
        Ma forse queste speculazioni ci porterebbero troppo lontano.  Meglio chiudere qui il discorso, augurando, per rispetto alla par condicio la miglior fortuna a tutti i candidati in questione.  Non saranno tutti eletti, naturalmente, ma l’importante è partecipare.  Ci rivedremo tra qualche anno.  E si ricordino, per favore, dell’immortale battuta di Groucho Marx: “Io non dimentico mai una faccia, ma, nel suo caso, farò un’eccezione”.

C. Oliva, 07.05.’01