Tra una settimana si vota e già stanno
sparendo, dai muri e dai tabelloni, le facce dei candidati che hanno scelto
il fotocolor come strumento di autopromozione. Ai loro volti sorridenti
e speranzosi si sovrappongono, ormai, i simboli e gli imperativi delle
rispettive organizzazioni, che, riprendendosi quasi di forza gli spazi
disponibili per l’affissione, segnalano la volontà di imporre, anche in
termini di preferenze, il proprio sistema di priorità.
Non
stupitevene troppo, ma vi confesso che, un po’, mi dispiace. A quelle
fronti spaziose, a quei profili alabastrini, a quelle labbra di corallo
mi ero, se non proprio affezionato, abituato. In fondo, lanciandomi
il loro muto appello, mi hanno fissato per giorni e giorni, sottolineando
bizzarramente i miei percorsi e i miei andirivieni. E per giorni
e giorni io ho ricambiato il loro sguardo cieco, chiedendomi non tanto
perché questi concittadini desiderassero così ardentemente un posto di
senatore, deputato, consigliere comunale o, faut de mieux, di consigliere
di zona (questo posso capirlo), quanto perché affidassero tante speranze
all’esibizione della propria effigie facciale. È un problema, in
realtà, che mi tormenta a ogni appuntamento con l’urna, tanto è vero che
ho il vago ricordo di avervene già parlato, anni fa, ai tempi della prima
repubblica: com’è possibile, corpo di bacco, che tante brave persone,
con la faccia che si ritrovano, credano che basti esporre una propria fotografia
sui cantoni e sui cassonetti per destare nella mobile turba degli elettori
il desiderio di innalzarle ai pubblici onori?
Non
fraintendetemi. Sulla necessità e l’utilità di una campagna elettorale
qualsiasi sono abbastanza d’accordo anch’io e capisco che chi non ha
libero accesso ai mezzi di comunicazione di massa, propri o altrui, debba
arrangiarsi come può. Non mi sognerei mai di criticare quanti onestamente
utilizzano i manifesti che fanno affiggere per inviare all’elettore un
qualche messaggio. Capisco tutti coloro che guarniscono il proprio
ritratto, più o meno abilmente ritoccato, con slogan e promesse di varia
natura, anche se ripiegano sugli slogan più banali, come quelli che assicurano
impegno, onesta e competenza (che, in fondo, dovrebbero essere dei prerequisiti
richiesti a chiunque) o si cacciano nei giochi di parole più ambigui, come
il motto di chi promette di essere, se eletto, “un amico in comune”.
E siccome so che i messaggi non devono essere necessariamente verbali,
fraternizzo di cuore con chi si è sforzato di organizzare graficamente
il proprio manifesto in modo da esprimere, comunque, un qualche valore.
Non ho niente contro il signore che si è fatto fotografare ritto
accanto al leader nazionale del suo partito, tanto per segnalare una familiarità
che l’elettore potrà considerare una garanzia ideologica, o contro la
giovinetta che, non potendo forse accedere al leader in questione,
ha ripiegato su una foto che la vede quasi abbracciata al proprio sambernardo,
perché anche l’amore per gli animali è virtù da prendere in considerazione.
Posso comprendere, anche se non necessariamente condividere, il
punto di vista di quello che si è fatto fotografare con addosso un berretto
di foggia vagamente militare: mai messaggio, anzi, mi è sembrato più chiaro.
E non mi sentirei di censurare neanche quelle due o tre signore che,
convinte – senza dubbio – di essere tanto belle, si esibiscono sui propri
manifesti con sorrisi e atteggiamenti degni di una diva cinematografica
degli anni ’50: anche la convinzione per cui in una donna va cercata,
prima di tutto, la bellezza può essere considerata un valore e se non si
tratta di un valore particolarmente progressivo, va detto che particolarmente
progressivo non è neanche il partito in cui militano quelle creature.
Ma
gli altri? Quelli che non inseriscono slogan, non sfoggiano familiarità
importanti, non si appoggiano a simbolismi riconosciuti, non si rifanno
a canoni predefiniti, ma esibiscono, puramente e semplicemente, la propria
faccia, su di loro cosa possiamo dire? È possibile che credano davvero
di avere dei lineamenti così espressivi, così accattivanti, così fascinosi
da guidare ipso facto le scelte degli elettori? Che siano innamorati
a tal punto della propria immagine da credere che tanto amore debba essere,
di necessità, condiviso dai passanti, a piedi o motorizzati? Che
non si rendano conto che la Natura, nella maggior parte dei casi, ha dato
loro dei sembianti affatto normali, ma che lo sforzo di agghindarsi e mettersi
in posa per l’occasione elettorale finisce per conferire a quelle fattezze
un che di vagamente grottesco, una qualità estetica che metterebbe in imbarazzo
persino le loro riverite madri?
Mah.
Nessuno è buon giudice di se stesso e questo, naturalmente, vale
anche per i candidati alle elezioni politiche e amministrative. E
poi, quando si tratta di raffigurazioni di sé, scattano sempre dei processi
incontrollati: a volte ho l’impressione che l’umanità, nei cinque o sei
millenni da che traccia immagini dei membri della propria specie e di quelle
altrui non abbia mai superato la dimensione magica in cui, a quanto si
dice, si inscriveva ab origine quell’attività. Se i nostri remoti
antenati erano convinti che l’immagine di un bufalo graffita sulle pareti
di una caverna avesse il potere di moltiplicare le mandrie di bufali su
cui facevano conto come riserva alimentare, perché certi loro discendenti
non dovrebbero credere, sotto sotto, che la propria immagine affissa sui
muri abbia il potere di moltiplicare gli elettori?
Ma
forse queste speculazioni ci porterebbero troppo lontano. Meglio
chiudere qui il discorso, augurando, per rispetto alla par condicio la
miglior fortuna a tutti i candidati in questione. Non saranno tutti
eletti, naturalmente, ma l’importante è partecipare. Ci rivedremo
tra qualche anno. E si ricordino, per favore, dell’immortale battuta
di Groucho Marx: “Io non dimentico mai una faccia, ma, nel suo caso, farò
un’eccezione”.
C. Oliva, 07.05.’01