Fa un po’ impressione, sinceramente,
la fotografia che campeggia a tutta pagina in testa al dorso milanese del
“Corriere” giovedì scorso. Scattata la sera prima all’Ottagono
della Galleria, raffigura quello che una volta si chiamava “il salotto
di Milano” gremito fino all’inverosimile di cittadini, tutti intabarrati
fino al collo per reggere a una temperatura che, anche in quell’ambiente
semiriparato non avrà superato i tre quattro gradi, rigidi come altrettanti
baccalà e con l’occhio a palla incollato ai megaschermi sui quali veniva
proiettato, in diretta dal teatro alla Scala, l’Idomeneo di Mozart,
che, come ricorderete, inaugurava quella sera la stagione di quello che
si usa definire il massimo tempio dell’opera lirica. Un’immagine
, ripeto, abbastanza impressionante e tale, comunque da suscitare qualche
curiosità. Erano tutte indistintamente melomani quelle brave persone,
disposte a sfidare clima e disagi per ascoltarsi un’opera che non è tanto
facile incontrare in repertorio? I commenti di stampa, in genere,
li consideravano tali e ne traevano, anzi, pretesto per celebrare l’alto
livello della cultura musicale in città, ma, con tutto il dovuto rispetto,
io credo sia lecito dubitarne. Sì, qualche melomane nella massa ci
sarà anche stato, e in proporzione maggiore, probabilmente, di quelli presenti
in teatro, ma quello dell’opera seria settecentesca, di cui l’Idomeneo
rappresenta un onesto esemplare, non è, per una quantità di motivi storici
e culturali, di cui Mozart stesso riveste una certa responsabilità, un
genere che oggi possa aspirare a una popolarità di massa. Ci sono
troppe difficoltà di ascolto, nel senso che l’opera seria richiede, per
essere adeguatamente apprezzata, la conoscenza di un certo numero di convenzioni
piuttosto complesse, l’adesione a un sistema di criteri di valutazione,
che vanno un po’ oltre la cultura corrente del medio appassionato di oggi,
compreso me che vi parlo, che infatti, mancando di quegli strumenti, finisco
ogni volta che me ne lascio coinvolgere per trovarla irrimediabilmente
noiosa.
In effetti, leggendo un po’ tra le righe
le cronache della serata di Sant’Ambrogio, si capisce che una certa dose
di noia deve essere serpeggiata tanto alla Scala quanto in Galleria, per
non dire del Teatro Dal Verme, dove l’assessore competente aveva invitato
un pubblico di anziani a condividere la stessa esperienza e del Teatro
degli Arcimboldi, dove, inchiodati di fronte ad analoghi megaschermi, si
accalcavano certi non meglio precisati giovani. Ed è facile capire
che i più fortunati, nonostante il freddo e la scomodità, erano quelli
della Galleria, che almeno potevano andarsene quando volevano. Agli
altri, poveretti, quattro ore abbondanti di arie, insiemi e recitativi
non le ha tolte nessuno e non tutti, naturalmente, potevano sostenersi
con la prospettiva della cena di gala a Palazzo Reale, cui il Comune di
Milano aveva invitato, a nostre spese, trecento VIP particolarmente vipposi.
Gli altri avranno sofferto in silenzio, paghi di partecipare, comunque,
a un Evento, anzi a quello che, per unanime sentenza dei media,
andava considerato l’Evento per eccellenza di questa stagione.
Già. Perché oggi, lo avrete notato
anche voi, gli eventi culturali che contano sono soltanto quelli che hanno
perso l’aggettivo e acquisito la maiuscola. Quelli di cui, per un
motivo o per l’altro, si parla molto prima che si realizzino e
cui chiunque, a prescindere della tipologia dell’offerta – si tratti
di una rappresentazione musicale o teatrale, della pubblica lettura di
un testo, dell’esibizione di un interprete o di una celebrità o semplicemente
della sfilata per le vie cittadine di un sommergibile montato su ruote
– può partecipare al di là di qualsiasi problema di competenze e interessi.
Quelli che possono combinare il massimo della passività nella fruizione
con un certo livello di esibizione di sé, secondo i principi di quella
che, nel generale tracollo dei valori sociali, sembra restata l’ultima
virtù civica praticabile, come a dire il presenzialismo. Perché essere
comunque presenti all’Evento è forse l’unico l’imperativo che regoli
oggi la vita associata, fatti politici compresi. La possibilità
di ricavarne un messaggio, di metabolizzarlo ai fini della propria crescita
spirituale o, semplicemente, di divertircisi interessa molto, ma molto
meno.
Certo, c’è partecipazione e partecipazione.
Nell’impossibilità (o, forse, nella rinuncia programmatica) di assicurare
a tutti lo stesso tipo di accesso, le autorità cittadine, dando prova di
una genialità di cui – lo confesso – non le avrei credute capaci, hanno
optato per una partecipazione stratificata per classi e categorie sociali.
Nella sala del Piermarini, al calduccio e in gran spolvero, i ricchi
e i potenti. Al Dal Verme gli anziani e agli Arcimboldi i giovani,
due categorie che notoriamente è bene tener separate. In Galleria
gli altri. L’immagine che ne esce è indubbiamente quella di una
città ordinata, in cui ciascuno sa stare al proprio posto, e in cui certe
cadute di stile, come quella del presidente Berlusconi, che ad andare a
sentire un’opera lirica proprio non riesce a rassegnarsi (e in questa
sua indifferenza alle pretese culturali riesce, per una volta, quasi simpatico),
ma spedisce spietatamente al Dal Verme la vecchia madre, o quella dell’assessore
Maiolo, che ha arringato gli anziani ivi convenuti su quanto fosse stata
brava a convocarli lì, e poi se n’è andata a godersi l’opera alla Scala
con i suoi parigrado, non si avvertono quasi. L’Evento non è fatto
per guardare gli altri ed eventualmente a criticarli: serve solo a permettere
di esibire se stessi. E a questo tipo di accadimento il successo
non manca mai.