I privilegi, lo sappiamo tutti, sono una brutta cosa, ma ammetterete anche
voi che è bello, ogni tanto, sentirsi privilegiati. È una sensazione che,
personalmente, provo di rado, ma che appunto per questo so apprezzare.
Per esempio, in questi giorni, godo di un privilegio che mi rallegra
non poco: non ho, diversamente da voi, cari ascoltatori, l’obbligo di
presentarmi a Brera per ammirare, nella sala XV della Pinacoteca, la tavola
della Signora con l’ermellino dipinta – sembra – da Leonardo da Vinci
e attualmente concessa in prestito al nostro paese dal museo Czartoryski
di Cracovia, dov’è normalmente esposta. Non ho dovuto passare ore
e ore cercando di telefonare allo 026597728 per prenotarmi e non dovrò
sottopormi ai previsti tre quarti d’ora minimi di attesa insieme a quanti
aspettano di essere ammessi, in gruppi di cinquanta persone, a godere,
per un massimo di quindici minuti poi via, delle supposte fattezze della
bella Cecilia Gallerani. E questo privilegio non me lo sono guadagnato
prevaricando qualcuno, facendo valere un’importanza sociale, parentele
illustri o posizioni di potere che non ho, o in qualche altro modo censurabile.
Dalla visione della Signora con l’ermellino e dai relativi disagi
sono esentato per il più lineare dei motivi. Io quel quadro l’ho
già visto. Mi è capitato, anni fa, di passare per Cracovia, in occasione
di uno scambio di scolaresche tra licei italiani e polacchi, e, pur affaccendato
nelle tipiche incombenze da can pastore che toccano agli insegnanti in
quelle occasioni, sono riuscito a trascinare il mio gregge riluttante al
museo dove si conservava la splendida raccolta che il principe Adam Czartoryski
aveva messo insieme per il museo privato di sua moglie verso la fine del
‘700, tavola di Leonardo inclusa. Spero che quegli studenti, che
allora non avevano mostrato di gradire particolarmente l’iniziativa, oggi
che sono tutti diventati colonne della buona società milanese, un tipo
umano per cui è doveroso, in occasioni del genere, prenotarsi e mettersi
in fila, si sentano investiti dello stesso privilegio e me ne siano grati.
Sì, va bene, direte voi. Ma che c’entra? Per
apprezzare al giusto valore un quadro, un’opera d’arte, non basta una
singola, occasionale presa di contatto. Repetita juvant, e come un
libro importante rivela i suoi segreti dopo varie e meditate letture (chi
non si è annoiato a morte la prima volta che ha cercato di leggere La certosa
di Parma?) e una sinfonia di Brahms o di Bruckner va sondata con molteplici
ascolti, anche un quadro va rimirato, rivisto, meditato, possibilmente
da più angolazioni e in circostanze psicoambientali diverse. L’aver
già visto La signora con l’ermellino non esonera nessuno dal dovere di
rivederla.
Vero, ma fino a un certo punto. E non
solo perché il ragionamento dovrebbe applicarsi, a rigore, all’intera
produzione artistica conservata nei musei. In effetti, i quadri,
ai bei tempi, venivano commissionati da chi avevano ogni intenzione di
goderseli in permanenza appesi ai muri del suo palazzo o della sua galleria
o esposti sugli altari di quella certa chiesa. Erano generi di lungo
consumo, destinati a quella fruizione ripetuta e distesa che sola ne garantisce
la piena comprensione. Oggi, in un museo che si visita ogni tanto,
magari nel corso di un viaggio in paesi lontani, e dove si è soffocati
da migliaia di altri capolavori incombenti, c’è poco da fruire. E
il fatto che non esistano, allo stato, soluzioni alternative non elimina
il problema.
E poi, vi confesso, a me tutto questa improvvisa
popolarità della Signora con l’ermellino, un po’ mi insospettisce. È
un quadro importante, certo, ma non è quell’unicum che giustificherebbe
tanto cancan. A Milano, per dirne una, disponiamo da sempre, all’Ambrosiana,
di un altro ritratto femminile leonardesco (c’è persino una vaga possibilità
che si tratti del ritratto della stessa bella signora) e la stampa, che
io sappia, non ha mai riferito di torme di appassionati pronti ad affrontare
ogni disagio pur di prenderne visione. Quanto alla tavola di Cracovia,
io non m’intendo affatto di storia dell’arte, ma basta una buona opera
di consultazione per scoprire che i critici sul suo valore hanno espresso
i giudizi più discordanti. Il Marangoni, nel suo Saper vedere, che
ha rappresentato per generazioni di non specialisti il testo iniziatico
per eccellenza alle arti figurative, ne nega addirittura la paternità,
considerandola un’opera di scuola, e per di più mediocre. Altri
eminenti critici, che non vi sto a citare, l’hanno via via attribuita
al De Predis o al Boltraffio, che sono artisti degni di riguardo, figuriamoci,
ma non certo tali, se l’attribuzione fosse confermata, da far accorrere
le masse. Per di più – apprendo – lo stato di conservazione del quadro
è abbastanza deplorevole: il fondo è rifatto, i contorni ripassati, la
parte sinistra della figura ripresa, i riccioli dei capelli sotto il mento
sono stati trasformati in fascia, la capigliatura è alterata, il volto
è ricoperto di una velatura rosea e, in definitiva, esente da manomissioni
varie resta solo la figura dell’ermellino. A proposito del quale,
non si può fare a meno di osservare che, se il ritratto fosse davvero quello
di Cecilia Gallerani, il pittore, chiunque fosse, doveva essere, come si
dice, un bel paraculo, se metteva in grembo all’amante ufficiale del sovrano
in carica una bestiola che, nella simbologia araldica corrente, era un
simbolo di castità.
Certo, di queste cose poco importa agli appassionati.
Soprattutto quando si tratta di Leonardo. Fuori dal Refettorio
di Santa Maria delle Grazie si continua a fare la fila per ammirare un
Cenacolo che l’accanimento terapeutico dei restauratori ha ridotto all’ombra,
anzi all’ectoplasma di se stesso. Al Louvre si sgomita di fronte
a una Gioconda che, a scanso di ulteriori aggiunte a una lunga storia di
furti e sfregi, è protetta da uno spesso strato di cristallo verdastro,
tipo fondo di bottiglia, che ne impedisce la vista a chiunque non abbia
le capacità oculari di un Nembo Kid. Ma la Gioconda e l’Ultima cena,
se non altro, sono due leggende consacrate della storia dell’arte, due
opere feticcio che, per una serie di motivi ben noti agli storici, hanno
accumulato in sé la capacità di attrarre attenzione. La Signora con
l’ermellino no: era, prima che se ne annunciasse l’arrivo e la provvisoria
esposizione in Italia, un’opera pressoché sconosciuta. Nessuno,
salvo qualche improbabile specialista di cose leonardesco, sarebbe andato
a Cracovia per ammirarla. E se fosse stata esposta da sempre in un
museo italiano non riscuoterebbe oggi più successo di quanto riscuota la
tavola dell'Ambrosiana.
Il fatto è che quel quadro non è più un quadro.
È un evento. È un prodotto del sistema delle comunicazioni
di massa, che ne ha annunciato l’arrivo e ha reso noto che la sua permanenza
sarebbe stata breve, il che rendeva imperativa la necessità di prenderne
visione. Per cui si è apprestato un sistema di visite limitate con
prenotazione e la gente si è affrettata disciplinatamente a sottostarvi,
inducendo in chi si occupa di queste cose il malinconico sospetto che non
l’afflusso dei visitatori imponesse la prenotazione obbligatoria, ma che
fosse la prenotazione obbligatoria a generare l’afflusso. Afflusso
che si spiegherà, nella maggior parte dei casi, più con la volontà di adeguarsi
a un obbligo collettivo che con quella di entrare in contatto con un capolavoro
dell’arte.
Poco male, naturalmente. Quel contatto
non farà male a nessuno e anzi potrà, in qualche caso, far scattare la
passione per Leonardo, o l’interesse per il Boltraffio o il De Pedris,
o, più semplicemente, il gusto per la grande pittura. Ma chissà
se a tali risultati non si sarebbe potuto addivenire senza scatenare quella
che è, in sostanza, una manifestazione di conformismo.
22.11.’98