Eufemismi incivili

La caccia | Trasmessa il: 12/03/2006


    Non c’è da stupirsi se il presidente Bush si ostina ad affermare (lo ha fatto anche al recente vertice di Riga) che in Iraq, per quante sparatorie, attentati, massacri e altre orribili cose si compiano al giorno, non è in corso una guerra civile. Per ostinato, il ragazzo è ostinato e poi – francamente – non può fare altro. Da quando ha dovuto ammettere a mezza bocca (lui parla sempre a mezza bocca, perché con la faccia che si ritrova non può fare altro) che le famose armi di distruzione di massa non esistevano, ha scelto, come argomento principe per giustificare l’impegno delle forze USA e alleate, la necessità di evitare che laggiù scoppiasse, appunto, una guerra civile: un argomento, se ricordate, che fu caro anche a Berlusconi e ai suoi e non è del tutto ignoto, se serve, a qualche esponente errabondo dell’Ulivo. Ora che la guerra, manifestamente, c’è, non possono, gli improvvidi, far altro che negare l’evidenza, che non è, in sé, una tecnica retorica raffinatissima, ma, se eseguita con la giusta dose di improntitudine, può dare ancora qualche risultato.
    “Guerra civile”, si sa, vuol dire semplicemente “guerra tra concittadini”, ma il termine ha una connotazione valoristica più complicata ed è raro che una guerra civile sia definita tranquillamente tale, per lo meno da coloro che vi sono direttamente impegnati. Lo fece Cesare, che delle preoccupazioni ideologiche altrui si curava assai poco, nel titolo della seconda serie dei suoi Commentarii, ma quando Lucano, un centinaio di anni dopo, si azzardò a seguirne l’esempio per il poema epico che stava scrivendo, scoprì che l’imperatore in carica, che era Nerone, non gradiva affatto che del suo illustre antenato si parlasse come del vincitore di una guerra civile e l’opera, che appunto come Bellum civile era partita, è sopravvissuta sotto il titolo, meno preciso ma più innocuo, di Pharsalia. Da allora l’espressione è restata appannaggio degli storici e i protagonisti se ne sono tenuti piuttosto alla larga.
    D’altronde, non è solo questione di sensibilità. La guerra, com’è noto, è qualcosa che si fa in due e come tale implica una sorta di riconoscimento reciproco, persino l’accettazione, almeno in teoria, di un qualche sistema di regole condivise. Invece in quel genere di conflitto, normalmente, le parti considerano come un proprio interesse vitale quello di negare all’avversario qualsiasi legittimità di combattente e sono disposte a fare di tutto, negazione dell’evidenza compresa, per non figurare l’una sullo stesso piano dell’altra. Così, gli insorti o gli esponenti della resistenza sono, per chi sta al governo, nient’altro che banditi e terroristi e i governativi, dal punto di vista di chi a loro si oppone, saranno sempre e soltanto degli usurpatori, meglio se al soldo dello straniero. Anche in Italia, sia pure a un livello un po’ occulto, ci siamo dilettati con questo genere di distinzioni e il danno che ci hanno fatto non è stato ancora misurato a pieno. In realtà, l’unica guerra civile che fu subito sentita come tale e come tale è stata definita fu la Civil War americana, quella che gli storici europei preferiscono chiamare, più precisamente, “guerra di secessione”, ma si trattava di un caso diverso e affatto nuovo, che prevedeva la scomposizione di un assetto federale esistente e la sua ricomposizione in un nuovo schema, che una delle parti si rifiutava di riconoscere, per cui insistere sulla natura “civile” del conflitto serviva soprattutto a tener dentro, in qualche modo, quelli che fin troppo ostensibilmente si erano chiamati fuori. E comunque gli unionisti non smisero mai di chiamare i confederati “ribelli”.
    Insomma, siamo di fronte a uno dei tanti fenomeni di eufemismo che caratterizzano la comunicazione politica e l’impressione è quella che il termine che più si cerca di esorcizzare, nella copia, sia il sostantivo, non l’aggettivo. Anche parlare di guerra, in effetti, nel contesto irakeno è tabù. Generali e portavoce si riferiscono spesso, nel loro rude linguaggio militaresco, alla necessità di finish the job, di “portare a termine il lavoro” e Bush stesso, nella sua ultima intervista televisiva, quando gli hanno chiesto se mai si deciderà a sgombrare ha osservato che quella domanda gliela fanno ever since we got into this, “da quando abbiamo cominciato questa cosa”, sfruttando fino in fondo la possibilità che la sua lingua gli offre di ricorrere a espressioni anche sommamente generiche. Tutti poi ricordiamo l’ostinazione con cui, nel loro piccolo, gli esponenti del passato governo italiano (per non dire dell’attuale) si riferiscono ai soldati dislocati in Mesopotamia e altrove come ai portatori di una “missione di pace”. Sono tutti piccoli (e squallidi) espedienti che la retorica della guerra impone ai suoi adepti, per quanto esili siano le loro possibilità di ingannare coloro cui si rivolgono. Perché l’eufemismo, alla fin fine, è solo una sottospecie di inganno e nessuno riuscirà mai a far credere che una guerra sia, in alcun modo, qualcosa di civile.

    03.12.’06