Avrete appreso anche voi che il Papa,
giorni fa, si è dichiarato addolorato e sorpreso alla scoperta che nella
futura carta costituzionale europea, qual è prefigurata nella dichiarazione
di Laeken, non è previsto alcun riferimento al valore e alla funzione della
religione, al punto che tra le varie “organizzazioni della società civile”
che i futuri costituenti dovranno consultare sono citate le “parti sociali”,
il “mondo degli affari”, gli “organismi non governativi”, le università,
eccetera, ma non le Chiese, o, come si usa dir oggi, le “comunità di credenti”.
Quelle, con un po’ di buona volontà, le si possono trovare soltanto
nell’eccetera finale. Sembra dunque che il pontefice, nel sentirsi
leggere quell’elenco, si sia “personalmente risentito”. E siccome
non è uomo che quando si arrabbia se lo tenga per sé, ha approfittato del
tradizionale ricevimento del corpo diplomatico dedicato agli auguri di
buon anno per esprimere con energia il proprio punto di vista. La “marginalizzazione
delle religioni”, che tanto “hanno contribuito e ancora contribuiscono
alla cultura e all’umanesimo dei quali l’Europa è legittimamente fiera”
ha detto, “è al tempo stesso un’ingiustizia e un errore di prospettiva”.
Tenendo conto della circostanza, delle consuetudini e del protocollo,
immagino che la dichiarazione abbia prodotto sugli interlocutori l’impressione
di una energica bacchettata sulle dita.
Mah.
Se mi è concessa la presunzione, credo di capire quello che sente
il pontefice. A nessuno fa piacere trovarsi relegato in un “eccetera”,
e meno che mai a un uomo tanto sicuro di sé e del proprio ruolo. Ma
il problema è che lui, nonostante tutti i suoi viaggi, non ha una gran
pratica d’Europa. In fondo è passato direttamente dalla Polonia
all’Italia e ormai è aduso irrevocabilmente alla centralità ideologica
di cui la Chiesa, per il potere che esercita e l’ossequio che le è tributato,
ha sempre goduto in entrambi i paesi. Nessuno ha mai avuto il coraggio
di spiegargli che l’Europa moderna non l’ha inventato, come si dice talvolta,
Carlo Magno (il cui impero, concettualmente, era tutt’altra cosa), ma
è nata, tra il XVII e il XVIII secolo, dalla tremenda esperienza delle
guerre di religione, un grande macello da cui le grandi nazioni del continente
si sono infine sottratto solo adottando la ferrea convenzione per cui,
nella vita pubblica, quando si tratta di attribuire ai cittadini i loro
diritti e doveri, della fede e dell’appartenenza religiosa di ognuno era
meglio non tenere affatto conto.
È in base a questo principio, di origine
affatto pratica, ma non privo di una sua certa valenza etica, che si è
assicurata la pacifica convivenza di cattolici e protestanti nel Nord Europa,
nonché la possibilità di integrarvi, volendo, gli eventuali nuovi venuti.
Certo, a Sud e a Est del continente, in Italia, in Spagna, nei paesi
balcanici e slavi, si è scelta tutt’altra via, ma sarà anche per questo
che il percorso democratico dalle nostre parti è stato (ed è) tanto più
accidentato. I politici dei principali paesi europei (tra i quali,
sperando di non offendere nessuno, mi permetterò di non includere il nostro)
lo sanno benissimo e non hanno alcuna intenzione di rinunciare a un’impostazione
che sta alla base dello sviluppo democratico del continente, nemmeno per
fare piacere al papa.
In
effetti, le uniche voci che hanno fatto coro a quella di Giovanni Paolo
II sono state, salvo errore, tutte italiane. All’immancabile, puntualissimo
ossequio dell’onorevole Casini, ha fatto seguito, nel recente dibattito
parlamentare sulla politica estera, quello del presidente Berlusconi. E
anche l’ottimo Prodi, che pure, vista la sua posizione di responsabilità
a livello europeo, avrebbe fatto meglio a star zitto, ha sentito il bisogno
di garantire che a marginalizzare le religioni lui, dio ne scampi, non
ci pensa nemmeno. Prodi e Berlusconi si considerano, credo, liberali
tutti e due, ma il loro liberalismo non è tale da porre a nessuno problemi
di laicità. In ogni caso, visto che i leader europei che contano
veramente non hanno dato prova di consimile zelo, sembra altamente probabile
che la carta europea resti priva dei riferimenti al Divino tanto auspicati
da Giovanni Paolo II.
Sarà
forse per consolarlo che il “Corriere della sera” dell’11 gennaio scorso,
oltre a guarnire la notizia dell’invettiva papale con una delle solite
indegne tabelle da cui risulta, sulla base di chissà quali dati, che in
Italia i cattolici sarebbero il 97,6%, contro un 1,92 di “altre fedi”,
ha avanzato l’ipotesi che “quell’assenza nella Carta” sia, guarda un
po’, “colpa della traduzione”. In fondo nel documento, a cercar
bene, si legge che l’Unione “è consapevole del suo patrimonio spirituale
e morale” e basterebbe ipotizzare, come scrive un anonimo corsivista,
che in quell’aggettivo “spirituale” sia compreso il significato di “religioso”,
da esplicitare mediante un’adeguata traduzione, per mettere tutto a posto.
Come esponente, sia pure a riposo, della nobile categoria dei traduttori,
mi sento lusingato, ma anche piuttosto perplesso. Che nelle nostre
responsabilità ci fosse quella di sanare le contraddizioni tra il laicismo
e clericalismo non mi era mai venuto davvero in mente.
20.01.’02