Errori di argomentazione

La caccia | Trasmessa il: 04/18/1999



Avrete notato tutti, suppongo, come i vari organi responsabili della NATO (portavoce, esponenti degli alti comandi e simili) non si siano poi sforzati molto per giustificare di fronte all’opinione pubblica il recente massacro di civili albanesi in fuga sulla strada da Prizren a Djakovica, nel Kosovo meridionale.   Come qualunque essere umano dai sei anni in su accusato di una malefatta qualsiasi, prima hanno detto di non essere stati loro e poi, quando la versione si è rivelata insostenibile, hanno ammesso di averlo fatto, sì, ma “per errore”.  E hanno aggiunto, per buona misura, che gli dispiace molto.  È in questi termini che si esprime il comunicato ufficiale della NATO (in cui ci si “rammarica per il male inflitto a civili innocenti”) e alla stessa linea argomentativa si sono attenuti tutti i leader politici dei paesi coinvolti, compreso il nostro.   Così, il buon D’Alema si è dichiarato partecipe del “dolore per il tragico errore che è costato la vita a tanti profughi”, illustrando “l’angoscia che accompagna la scelta” di bombardare.  Nessuno dei suoi soci, in Italia o all’estero, è riuscito a elaborare, che io sappia, un argomento diverso.
Ora, proviamo, se non vi dispiace, a contenere l’indignazione che si prova sentendo pronunciare delle banalità di questo genere in presenza di settantacinque morti ammazzati, e riflettiamo un momento sulle argomentazioni in sé.   È abbastanza ovvio che, mentre il dispiacere (l’angoscia, il dolore, lo strazio…) che uno dichiara di aver provato dal punto di vista dell’argomentazione non significa molto, perché a fare delle puttanate angosciandocene siamo bravi tutti, la dichiarazione di errore un certo valore ce l’ha.  Da quando la morale non valuta più le azioni in sé, come nei miti tragici o nelle ordalie guerresche, ma tiene conto delle intenzioni e delle finalità di chi le commette, l’errore è senza alcun dubbio la forma di esimente più comunemente invocata e riconosciuta.  Dire “mi sono sbagliato” significa, in sostanza, che non volevo fare quello che ho fatto, ma qualcosa d’altro, qualcosa, in genere, di meno grave, se non di lodevole.  Naturalmente, chi ricorre a questo argomento corre sempre il rischio di sentirsi rispondere che avrebbe dovuto starci più attento, ma questa, in fondo, è un’imputazione minore: riguarda le doti intellettuali di chi agisce, la sua “intelligenza”, non la sua moralità e se tutti sono tenuti, in teoria, a un comportamento morale, nessuno è obbligato a essere intelligente.  Non dipende da lui.
Naturalmente chi invoca l’errore non ha per questo intenzione di passare per un deficiente completo, soprattutto se non si tratta di un comune cittadino che, accusato di qualche modesto delitto individuale, sostiene la propria infermità mentale per schivare l’ergastolo o peggio, ma di capi militari o leader politici cui sono state affidate posizioni di alta responsabilità in considerazione della loro capacità e intelligenza, come a dire della loro asserita capacità di non commettere errori.   E quando, per un motivo o per altro, costoro non possono ricorrere al concetto di “errore commesso da qualcun altro” (non possono, nella fattispecie, dare la colpa al pilota, perché se si comincia a dare la colpa ai piloti poi non si finisce più), devono fatalmente sostenere che quell’errore è dovuto alle circostanze esterne.  Devono dire che l’aereo volava troppo alto perché fosse possibile distinguere bene i bersagli a terra; che i trattori di quei poveri profughi somigliavano terribilmente a dei carri armati; che nelle vicinanze bruciava un villaggio e qualcuno doveva pur avergli dato fuoco e allora perché non quelle formichine che si muovevano lungo la strada, eccetera eccetera.  E alle obiezioni di chi fa notare come ognuna di queste circostanze fosse, in definitiva, valutabile e avrebbe dovuto essere valutata, finiscono con il ribattere una volta per tutte che no, che quell’errore, poche storie, era “inevitabile”.  Lo stesso Clinton, dall’alto della sua autorevolezza imperiale, oltre ad assicurarci che questa “è una battaglia epocale contro le forze dell’oscurità” e contro i “demoni profondi della natura umana” (che dio lo perdoni), ci ha garantito che altri innocenti saranno colpiti, perché “questi errori sono deplorevoli e inevitabili in guerra.”
Ed è proprio qui, come avrete capito, che l’argomentazione crolla.  Perché se un errore è inevitabile, non c’è santi, non è più un errore.  Ad impossibilia nemo tenetur, nessuno è tenuto all’impossibile e nessuno può illudersi di evitare quello che non può essere evitato.  L’errore è l’esito possibile di una scelta e una scelta prevede sempre due (o più) ipotesi, non una.  Dire che colpire i civili è un errore inevitabile in guerra significa che l’ipotesi di colpire i civili è compresa senza residui (è, diciamo così, una subipotesi) nell’ipotesi guerra.  L’errore sarebbe quello di non colpirli, perché così si concederebbe un insostenibile vantaggio tattico e strategico al nemico.  Che poi è per definizione cattivo: incarna “le forze dell’oscurità” e “i demoni profondi della natura umana” e non ha certo remore di genere morale, e allora perché cavolo dovremmo averne noi?
Come vedete, ogni pseudoargomentazione sfocia inevitabilmente nella propaganda.  Le guerre moderne, si sa, si combattono sui media con pari (o maggiore) accanimento che sul campo.   E la propaganda ha, se non altro, il vantaggio di non mostrare le vittime, non nel senso che le nasconde (che anzi, ne ostenta quante più possibile, almeno per quanto riguarda il campo di appartenenza di chi la propaganda la sta facendo), ma perché ne fa qualcosa d’altro, ne dematerializza, per così dire, le sofferenze, prescinde dalla loro natura di esseri umani sottoposti a inconcepibili oltraggi, per ridurle, appunto, ad argomentazioni a favore di questa o di quella tesi.  Non per niente, come forse avrete notato, in questi brutti giorni di guerra in presa diretta televisiva si sta evidenziando un singolarissimo contrasto traversale tra operatori dell’informazione (e della propaganda): gli inviati sul luogo di operazioni, che sentono con le proprie personali narici lo sconveniente odore della morte, come lo chiamava Dylan Thomas,  e che hanno talvolta occasione di temere per la propria pelle, cominciano a dire delle cose che non piacciono troppo ai commentatori insediati al sicuro in patria negli studi e nelle redazioni.  Il battibecco in diretta tra quelli che restano, nonostante tutto, due vecchi compari come Mentana e Santoro, nei termini in cui l’hanno potuto cogliere gli spettatori del Moby Dick da Belgrado, giovedì scorso, si ripete in forma meno esplicita in tutti i telegiornali e sulla prima pagina di quasi tutti i quotidiani, nel contrasto tra gli articoli di fondo, per cui i serbi sono soltanto dei massacratori di kosovari,  e le corrispondenze dal campo.  Ed è ovvio, in fondo: perché la propaganda funzioni bisogna mostrare le vittime da una sola parte.  Il contrasto verte, in ultima analisi, sul problema della natura del nemico.  Se lo si considera l’incarnazione delle forze dell’oscurità, non ci si preoccuperà troppo delle sofferenze che gli si infliggono, anzi.  Ma chi vede morire sotto le bombe le donne e gli uomini in mezzo a cui vive e pensa di correre il rischio, sia pure remoto, di condividere il loro destino, dovrà avere, ovviamente, un punto di vista più articolato.
È una contraddizione interessante, ma state pur certi che sarà superata quanto prima.  Una delle conseguenze inevitabili della guerra, sempre è comunque, è l’instaurazione della censura.

18.04.’99