Fortunati, dunque, i popoli che non
hanno bisogno di eroi. L’aforisma brechtiano in questi giorni è
stato ripetuto tanto spesso da suonare banale, ma si impone comunque alla
mente di tutte le persone ragionevoli, se non altro come reazione all’impudenza
di un ministro che, desideroso di nascondere i suoi errori, ha trasformato
una notizia triste (e per molti versi oscura) in una espressione di cattiva
retorica.
Tutti, naturalmente, rispettiamo i caduti,
quali che siano i percorsi che li hanno condotti all’ultimo sacrificio,
ma non sentiamo il bisogno, per rispettarli, del loro asserito eroismo.
L’eroismo, anzi, ci fa un po’ paura. Sappiamo dalla storia
che nessuno diventa un eroe di propria iniziativa, che quella definizione,
specialmente quando è conferita a titolo postumo, riflette più le motivazioni
di chi lo conferisce che la volontà e i valori di colui che ne viene investito.
E le investiture di questo tipo non sono mai gratuite, non
sono il frutto dell’ammirazione sincera per chi in nome dei valori in
cui credeva ha messo a repentaglio la vita o ha saputo affrontare con dignità
il proprio destino, che è cosa che tutti, in cuor nostro, vorremmo essere
capaci di fare e solo a pochi, naturalmente, è concessa. L’eroe,
per chi ne esalta il gesto e ne fa un paradigma di virtù condivisa standosene
tranquillo dietro le retrovie, o – nel caso presente – sotto l’occhio
gratificante delle telecamere, è soprattutto colui che con la personale
eccellenza è chiamato a sanare la inettitudine altrui. Il suo coraggio,
il più delle volte, si contrappone alla viltà (pretesa) degli altri, la
sua determinazione serve a far dimenticare le responsabilità di chi lo
ha mandato allo sbaraglio. Non per niente, nella tradizione storica
classica, di atti di eroismo si parla soprattutto in occasione delle sconfitte.
Quando le legioni di Roma dilagano per ogni dove e i consoli dispongono
che sulle rovine delle città sconfitte sia sparso il sale, il racconto
non ha posto per gli atti di valore individuale; quando Porsenna è alle
porte o i Cartaginesi sembrano sul punto di prevalere, allora c’è fin
troppo spazio per Muzio Scevola e Attilio Regolo. E non è nemmeno
il caso di interrogarsi sulla realtà storica di quei celebri personaggi
o sulla corrispondenza delle gesta che loro si attribuiscono con quanto
possono aver effettivamente compiuto: basta sapere che nella logica
narrativa in cui li si rievoca, la loro funzione è propagandistica e consolatoria.
Ahimè. In questi giorni tristi,
quando l’incoscienza di chi governa e l’acquiescenza dell’opposizione
ci coinvolgono sempre più a fondo tutti in una guerra ingiusta e illegale
da cui nessuno sembra sapere come uscire, non abbiamo bisogno né di propaganda,
né di consolazione. Non abbiamo bisogno di eroi e non abbiamo bisogno
di sentirci spiegare quanto siano bravi i nostri diplomatici, quanto valorosi
i nostri ragazzi, quanto competenti le nostre governatrici. Una volta
dissolto, di fronte alla dura realtà della guerra, il logoro mito degli
italiani pacifici e amati anche in terra di occupazione, gli addetti alla
propaganda, col consueto cinismo, ne stanno costruendo uno nuovo. I
nostri ragazzi, più o meno in divisa, non saranno forse amati da tutti,
tanto è vero che gli si spara e li si spinge a sparare, che uccidono e
vengono uccisi, ma stanno costruendo una nuova immagine di operoso eroismo,
per cui il mondo ha un “nuovo rispetto” (come scriveva ieri, fra i tanti,
Gianni Riotta nel fondo del “Corriere”) e di cui tutti dovremmo essere
fieri, senza formalizzarci sulle circostanze in cui queste nuove, mirabili
competenze si dispiegano. Ma questo è il punto: da questo orgoglio
bellicoso, da questa fierezza basata sulla morte degli altri, dei civili
e dei militari italiani come dei civili e militari irakeni, chiediamo rispettosamente
di essere esonerati.
18.04.’04