Ernie, metafore, frazioni e pacifisti

La caccia | Trasmessa il: 02/06/2005



Ho recentemente scoperto, cari ascoltatori, di appartenere a un partito: quello, pensate un po’, degli “irriducibili”.  Lo ho appreso dal “Corriere della sera” di martedì ultimo scorso, che, in uno strillo in prima pagina, puntualmente ripreso da un ampio servizio all’interno, introduce nel dibattito ideologico nazionale la nuova categoria dei “pacifisti  irriducibili”.  Brutta gente, eh, che non crede all’effetto salvifico delle elezioni in Iraq, che le giudica “una farsa” ed è convinta che in quel paese “non cambierà nulla”.  Sono, specifica l’occhiello, “cattolici e intellettuali di sinistra”, con la sola eccezione citata, non è chiaro perché, del professor Alberto Asor Rosa.  Ed è chiaro dal  contesto che il loro giudizio non è tale da poter essere condiviso dalle persone dabbene.  Sono irriducibili, appunto, e tanto basta.
        Be’, io cattolico non posso proprio dire di essere, giudicherei presuntuoso definirmi un intellettuale di sinistra, ma sul “pacifista” posso concordare e sulle elezioni irakene, in effetti, ho una quantità di riserve.  Non mi spingerei, forse, a definirle una “farsa”, perché da quelle parti evidentemente c’è ben poco da ridere, ma che da una consultazione elettorale svoltasi sotto occupazione armata ci sia da aspettarsi ben poco mi sembra tanto ovvio che non riesco sinceramente a capire come si faccia a sostenere in buona fede il contrario.   Dunque, sono irriducibile anch’io e farete bene, d’ora in poi, a tenerne conto.
        D’altro canto, a pensarci, che male c’è a essere irriducibile?  L’aggettivo non è in sé particolarmente nefando.  A parte certi usi specialistici, come in medicina, dove lo si riferisce a “fratture, lussazioni o ernie che non possano essere rimesse in posizione normale”, o in matematica, in cui lo si applica a “un polinomio che non può essere decomposto nel prodotto di due polinomi di grado diverso da zero” – qualsiasi cosa significhi – o a una frazione che, ridotta ai minimi termini, presenti numeratore e denominatore primi fra loro, il termine indica evidentemente qualcosa che non è facile ridurre a qualcosa d’altro e questo, se riferito a esseri umani, dovrebbe essere inteso piuttosto come un complimento.  L’ostinazione, lo sappiamo, è una brutta cosa, ma “irriducibile” non significa semplicemente “ostinato”: la sua gamma semantica copre una quantità di connotazioni positive, dall’integrità morale alla fermezza nelle proprie opinioni e la lealtà verso i principi che si professano.  Irriducibili, in questo senso, sono noti eroi nazionali come Amatore Sciesa e Francesco Ferrucci, cui si intitolano vie e piazze e le cui gesta si imparano a scuola.   vero che Silvio Ceccato parla, in più passaggi della sua opera, di “metafore irriducibili”, intendendo per tali quelle affermazioni che non è possibile ridurre in operazioni senza incappare in una contraddizione (e quindi, dicendola un po’ all’ingrosso, non significano niente), ma l’influenza di quel pensatore sulla cultura nazionale non è stata tale da determinare a livello di pubblicistica un’accezione automaticamente negativa del termine.  Per cui, tornando al nostro punto di partenza, il punto di vista un pacifista irriducibile, senza offesa per il professor Asor Rosa, dovrebbe essere apprezzato e considerato molto, ma molto di più di quello di un suo ex compagno di fede che, di fronte allo spettacolo degli irakeni in fila davanti ai seggi, abbia deciso, senza neanche sapere chi ha vinto e con che programmi, di convertirsi alla teoria della guerra giusta e benefica.  Nel paese dei trasformisti e dei voltagabbana, chiunque sappia mantenersi saldo nei propri convincimenti merita considerazione e rispetto.
        Ahimè.  Sappiamo tutti che al “Corriere” non si occupano di semantica.  Loro, nel fare quel titolo, non pensavano né a Silvio Ceccato, né ai polinomi né ad Amatore Sciesa.  L’unico vero uso giornalistico accreditato dell’aggettivo plurale “irrudicibili” negli ultimi dieci anni è quello che lo vede unito in endiadi indissolubile con il sostantivo “terroristi”.  Sono, anche costoro, persone degne di rispetto, perché hanno rinunciato, per coerenza con le proprie scelte, per discutibili che fossero, ai vantaggi e alle impunità che questo nostro stato dalla debole fibra morale offre in cambio di una delazione o di un’abiura e poi non a tutti coloro che sono stati definiti in quel modo l’epiteto calza a pennello.  Tuttavia, proprio perché le loro scelte sono state di un certo tipo, non sono persone con cui sia corretto paragonare i propri avversari politici, come quel titolo, senza parere, indubbiamente fa.  Affermazioni del tipo “chi non sta con noi è un terrorista” potranno piacere ai magistrati di Brescia, ma non dovrebbero avere diritto di cittadinanza in una società che si pretende liberale.  In particolare, non dovrebbero essere usate implicitamente, in un titolo buttato lì, senza dibattito né discussione, non si sa se come battuta di spirito o come illazione gratuita.  No, chi si serve di questi metodi, di rispetto proprio non ne merita.

06.02.’05