Emergenze, catastrofi e dittature

La caccia | Trasmessa il: 04/06/2008


    Nell'antica Roma, si sa, quando gli Equi o i Volsci alzavano troppo la cresta, o Annibale si presentava alle porte o si doveva far fronte a qualche altra catastrofe di natura militare o civile, era uso eleggere un magistrato straordinario, il dictator rei gerundae causa, cui si delegavano pieni poteri, in modo che potesse gestire la crisi senza preoccuparsi di eventuali controlli o censure. Era un rimedio estremo, s'intende, anche perché il potentato in questione poteva farsi delle idee, e non era detto che avesse il buon gusto di deporre prontamente la carica a missione compiuta, come fece il celebre Lucio Quinzio Cincinnato nel 458 a. C. (e già il fatto che sia famoso solo per quello la dice lunga su come normalmente si comportavano gli altri). Di fatto, dopo le guerre puniche di dittatori non se ne nominarono più e prevalse piuttosto la tendenza, ove necessario, di investire di poteri straordinari i magistrati normalmente in carica. Vi ci si provvedeva con un apposito atto, il senatus consultum ultimum, e i senatori che lo deliberavano, con la celebre formula che incaricava i consoli di far sì che lo stato non subisse un danno, erano evidentemente confortati dal pensiero che il potere sarebbe restato, comunque, all'interno della loro cerchia.
    Tutto questo, naturalmente, è storia, e per di più antica. Ma l'idea che un singolo individuo possa meglio venire a capo delle difficoltà collettive se sciolto dall'obbligo di render conto ad altri o di seguire le procedure ordinarie è restata a lungo operante nella cultura politica dell'Occidente. Teorizzata dal Machiavelli, ripresa da Marat con la Rivoluzione Francese, utilizzata con larghezza da entrambi i Napoleoni, ha avuto, come sapiamo, delle applicazioni particolarmente catastrofiche nella prima metà del XX secolo. Ma continua, in un modo o nell'altro, a funzionare, come dimostra il pullulare di “commissari straordinari” cui si ricorre, in Italia come altrove, nelle più varie emergenze, dalla crisi della spazzatura a quella dell'Alitalia. O come quando, naturalmente, si discute se affidare i poteri straordinari alla Letizia Moratti perché meglio possa guidare la nostra città ai luminosi traguardi dell'Esposizione universale del 2015.
    Non mi permetterei certo di paragonare la sindaca per eccellenza a un Machiavelli o a un Napoleone. Qualcuno se ne potrebbe adontare. Ma che l'attribuzione dell'Expo a Milano possa essere considerata una catastrofe, e come tale vada gestita, be', questa mi pare un'ipotesi abbastanza ragionevole. È un caso raro – se non del tutto inedito – di catastrofe voluta e acquisita con grande sforzo (anzi, pagata in contanti) da coloro che sono destinati a subirla, ma sempre catastrofe è e sono sicuro che con il passare del tempo ce ne renderemo sempre più conto.
    Come forse avrete capito, non riesco a condividere l'entusiasmo per il trionfo ambrosiano sui turchi, cui pure si sono abbandonate persone ragionevoli e vicine a noi, quali il buon Michelino Crosti qui a Radio Popolare o Renato Nicolini sul “Manifesto”. Come devo avervi già confidato, io non ho simpatie particolari per Smirne, che appartiene sì, al novero delle sette città che si contendevano il vanto di aver dato i natali a Omero (anche se personalmente ritengo che gli argomenti migliori da quel punto di vista li abbia Chio), ma fu teatro, nel 1922, di una delle più spaventose “catastrofi umanitarie” della storia moderna e su queste cose non si può far finta di niente. Tuttavia, come cittadino milanese proprio non riesco a rallegrarmi all'idea che l'attuale classe dirigente della città si trovi a gestire non ho ben capito se quattro, venti o quaranta miliardi. Visto la solerzia con la quale costoro hanno privatizzato, cementificato, destoricizzato, affastellato, incasinato e sfruttato Milano, non capisco perché mai ci si debba aspettare da loro qualche realizzazione che non sia, come sempre, concepita e realizzata nel loro esclusivo e privatissimo interesse. Non capisco come possa contribuire un'Expo al compito immane di “nutrire il pianeta”, che dovrebbe essere affidato a qualche istanza internazionale più qualificata, mi sembra assurdo che proprio da questa città si lanci un appello per uno stile di vita migliore e (figurarsi) più sano, resto perplesso di fronte a un “Comitato scientifico” inzeppato di illustri sconosciuti, rabbrividisco all'idea del prevedibile collasso cui le già scalcagnatisime infrastrutture urbane andranno incontro sotto l'impatto delle previste orde di visitatori.
    E non ditemi, per favore, che proprio questo è il punto, nel senso che i miliardi che cadranno a pioggia sulla città saranno impiegati appunto per rinnovare e implementare mezzi e infrastrutture, con permanente beneficio per la città e i cittadini tutti anche a Esposizione conclusa. Tanto per cominciare, come vi dicevo prima, non ci credo, ritenendo assai più probabile che detti miliardi finiscano per venire investiti a favore esclusivo dei soliti noti. E poi è proprio questa, mi sembra, la logica che bisogna rifiutare: la logica dell'Evento (con la maiuscola), della Grande Occasione su cui bisogna concentrarsi per ottenere visibilità, prestigio e nuovi impulsi di sviluppo. È la logica in base alla quale, da un certo numero di decenni, si trascura sistematicamente la gestione quotidiana dell'ambiente urbano, perché è molto più gratificante concentrarsi sul rifacimento della Scala (se vogliamo, per carità di patria, chiamarlo così) che occuparsi dell'edilizia popolare, dei tram, dei marciapiedi sconnessi o dell'illuminazione dei viali di periferia. Si vede l'Evento (non importa se sportivo, culturale, espositivo o che altro, tanto ormai è tutta la stessa zuppa) come la fiaccola capace di illuminare il grigiore della vita di tutti i giorni. Che la “visibilità”, come a dire il prestigio, di una comunità urbana dipenda dal buon funzionamento delle sue strutture, dalla solidità della sua economia, dalla ricchezza della vita intellettuale che vi ci si conduce, dalla solerzia con cui sa conservare le tradizioni e i monumenti del suo passato, persino dalla capacità di risolvere in modo ragionevole e umano i problemi posti dalla presenza, comune a tutte le grandi città, dei diseredati e dei derelitti, non sembra attecchire nelle zucche dei nostri amministratori. Preferiscono affidare le chances della città alla sua capacità di trasformarsi in una specie di Disneyland globalizzata, forse perché per entrare a Disneyland si paga il biglietto, e chi non ce l'ha deve essere sollecitamente allontanato.
    Più in generale, che il loro compito sia quello di secondare e agevolare l'impegno collettivo dei cittadini, e che a esso farebbero meglio a dedicarsi ogni tanto, invece di pavoneggiarsi alle luci della ribalta mediatica, è un'altra idea che proprio non gli va giù. In parte è per pura e semplice avidità, perché sono troppo affascinati dal tintinnar dei dobloni per pensare ad altro, in parte è perché anche loro sono succubi dell'ideologia che contribuiscono a propagare. Perché è questo mix di esibizionismo, narcisismo e indifferenza per i bisogni degli altri la vera dittatura cui tutti – e loro con noi – soggiaciamo.
06.04.'08