Dorando 10

Atene | Dorando 10


    Nell’antichità i giochi, quelli olimpici compresi, avevano un significato religioso. E non soltanto perché si svolgevano presso il santuario di un dio in occasione di una sua festa: il fatto è che il vincitore, deponendo sull’altare la corona di olivo, di alloro, di pino o di finocchio selvatico che – a seconda dei casi – gli veniva attribuita, assumeva un ruolo di tramite tra la comunità umana e quella divina: diventava, cioè, tecnicamente un “eroe”. La gara – corsa, salto, lotta o altro che fosse – aveva la funzione di selezionare, tra i vari aspiranti, il più degno di compiere il sacrificio. Era un concetto molto diffuso nel mondo antico e non solo in quello mediterraneo: presso altre culture, lontane dalla nostra (per esempio nell’attuale Messico meridionale), sono testimoniati degli eventi agonali in cui la selezione era ancora più radicale, nel senso che a essere sacrificati, alla fine, erano i vincitori. Un grande onore, naturalmente, ma non tale – forse – da spingere gli atleti a dare il meglio di sé. I greci antichi erano più realistici e cercavano di mantenere l’intera faccenda nei limiti del simbolico.

    Naturalmente, siccome nessuno è mai riuscito a tener separate le gerarchie religiose dalle altre, si prendevano varie precauzioni per impedire che a rappresentare la comunità presso il dio fosse il primo bifolco di passaggio, purché dotato di polpacci di acciaio e muscolatura gagliarda. Per Pindaro, così, era meglio che a vincere fosse un nobile, o, in mancanza, almeno un potente, come i tiranni di Sicilia, e se anche di potenti c’era penuria, almeno un ricco, ricco quanto bastava – come minimo – per affrontare le tariffe che il poeta stabiliva per i suoi carmi. Non c’erano preclusioni formali, naturalmente, ma visto che solo i nobili, i ricchi e i potenti potevano permettersi le spese di allenamento e gli equipaggi equestri necessari per ben figurare, per tutta l’età arcaica il sistema tirò avanti abbastanza bene.

    Quando la cultura etico nobiliare dell’età arcaica andò in pezzi, perché gli ateniesi avevano inventato la democrazia, che non era proprio come la nostra, ma al potere degli aristocratici dava comunque un taglio, tutti cominciarono a dire che le olimpiadi non erano più quelle di una volta. A lamentarsi perché ormai erano diventate dominio dei più volgari professionisti, gentaglia che di una corona di rami di olivo non sapeva che farsene, ma esigeva cospicui contributi monetari sottobanco e pur di vincere, ovviamente, era capace di qualsiasi infamia. A rimpiangere un autentico spirito olimpico che, ahimè, si era perso per sempre. I giochi, di fatto, durarono per altri otto secoli, e questo significa che qualche altro motivo di interesse lo mantenevano, ma durarono a condizione che tutti furono disposti a fingere che fossero qualcosa d’altro di quello che erano diventati. Si erano laicizzati, diventando dei grandi spettacoli popolari, ma si fingeva che avessero un significato di cui non interessava più praticamente a nessuno. Pausania, la nostra fonte principale in materia, è abbastanza esplicito.

    Lascio a voi il piacere di tracciare il facile parallelismo con i giochi moderni, come si sono evoluti in questo ultimo mezzo secolo. Sappiamo tutti che nelle “olimpiadi moderne” l’etica aristocratica (e borghese) del dilettante, di colui che partecipa per diletto, perché se lo può permettere, e in questo diletto trova l’unica ricompensa, così come l’avevano definita i fondatori ottocenteschi dei giochi, è miseramente crollata sotto il peso di tutta una serie di altri interessi, in primis quelli propagandistici degli stati, che, consapevoli di come la religione non sia l’unico oppio che ai popoli si possa proporre, hanno imposto la priorità delle squadre nazionali sui singoli atleti, e a quelle esigenze di spettacolarità che i mezzi di comunicazione di massa enfatizzano così drammaticamente.

    L’unica cosa che non si può proprio dire è che le olimpiadi moderne, come quelle antiche, siano state rovinate dalla democrazia. Come abbiamo potuto ampiamente notare anche in questi giochi ateniesi, di democratico, in esse, non c’è proprio niente. Salvo singoli episodi, tollerati, ma tenuti accuratamente sotto controllo, a vincere, nella moderna dimensione di squadra (o, se volete, di “delegazione”), sono gli stati ricchi e potenti. Basta una rapida occhiata al medagliere. Gli americani si confermano potenza dominante, la Russia paga la sconfitta nella guerra fredda, la Cina celebra il suo nuovo ruolo mondiale, l’Europa sconta la disunione politica, ma produce più vincitori di qualsiasi altro continente. I greci, nel loro piccolo, festeggiano l’ammissione nel club dell’euro. L’Italia, in perfetto stile berlusconiano, stringe meno di quanto vorrebbe. E così elencando, a piacere.

    Quanto ai giocatori, agli atleti, quello che sbalordisce è la loro totale mancanza di individualità. Sono – come avrete certamente notato – tutti uguali, tutti omogeneizzati dalle stesse tecniche di selezione, esercizio, trattamento chimico, indottrinamento ideologico e confezione finale. Con l’unica, ovvia, eccezione del colore della pelle, che peraltro è sempre più indipendente dalla nazionalità dichiarata (non sapevo, per dirne una, che ci fossero tanti neri in Portogallo), non hanno caratteristiche etniche o personali degne di nota: li si distingue, e non sempre, dal modello della tuta. Mi è capitato di assistere, per caso, alla cerimonia di premiazione di una regata velica: c’erano sul podio due svedesi, due greche e due spagnole, sei ragazze provenienti, in teoria, da tre angoli lontani e ben diversi del nostro continente, dall’Europa nordica, atlantica e mediterranea. Be’, sembravano tutte sorelle: le greche e le spagnole, in effetti, erano più bionde delle svedesi. Sarà stato un caso, eh, e anche Achille, a detta di Omero, era biondo, ma anche questo è un particolare su cui può valere la pena di riflettere.

    27.08.’04

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