Dissimmetrie

La caccia | Trasmessa il: 04/03/2005



Mi ero preparato, per la trasmissione di questa mattina, un commento abbastanza sulfureo all’intervista in cui, la domenica di Pasqua, il cardinale Ruini aveva sentito il bisogno di dichiarare – in buona sostanza – che, essendo il nostro un paese cattolico, la Chiesa ha tutti i diritti, se non l’espresso dovere, di raccomandare di non andare a votare al referendum sulla procreazione assistita.  Non che ci fosse, in quel testo, nulla di particolarmente scandaloso, a parte la disinvoltura con cui si applicava all’Italia un aggettivo che non sono così sicuro le spetti: era anzi evidente che l’intervistato si sforzava di moderare i toni e rassicurare, in qualche modo, la parte avversa, ma, certo, conteneva delle affermazioni preoccupanti.  Dall’affermazione, condivisibile, in un certo senso, per cui “le riserve etiche della nostra società vengono in gran parte dalla tradizione cristiana” il cardinale riusciva a trarre delle conseguenze piuttosto spinte.  Così sosteneva, un po’ spazientito, che era ora di smetterla con “l’idea che la religione, e anche la filosofia, debba essere qualcosa di privato, senza rilevanza pubblica”  e non si peritava di affermare che, visto che  la Chiesa, comunque, “ha sempre avuto nella storia un ruolo pubblico”, non si capiva perché non dovesse continuare ad averlo in futuro e, nello specifico, perché dovesse rinunciare a fornire un’indicazione di voto che “nelle questioni etiche c’è sempre stata”.  E anche se questo modo di ragionare è, in ogni caso, l’unico che sia lecito attendersi da chi è in quella posizione, spiaceva constatare come, anche il giorno di Pasqua, un uomo di Chiesa di tanto prestigio continuasse a tenere lo sguardo così tenacemente ancorato a questo nostro mondo terreno.
        Oggi il cardinale Ruini ha altro cui pensare e dalle polemiche di questo tipo, per motivi di rispetto umano, sarà opportuno astenersi.  Ma ammetterete anche voi che la prospettiva che quel porporato sia uno dei protagonisti del prossimo Conclave e possa, anzi, venirne innalzato a posizioni ancora più alte di potere e responsabilità, è piuttosto inquietante.  La Chiesa, come ripetono oggi tutti i commentatori con desolante unanimità, è molto cambiata durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, il papa ha compiuto delle straordinare aperture nei confronti del mondo moderno, ha rilanciato il dialogo tra le religioni, ha invocato la pace, ha chiesto scusa agli Ebrei, ha riabilitato Galileo e ha deprecato il rogo di Giordano Bruno, ma ha fatto anche beatificare Pio IX, recuperando implicitamente le condanne del Sillabo e su certi argomenti né lui né i suoi collaboratori sono mai stati disposti a transigere.  Alla fiducia nel “braccio secolare”, alla possibilità di imporre per legge ai fedeli (e anche a  chi fedele non è) i comportamenti che considerano corretti e doverosi non hanno mai rinunciato.  Ed è questa, in definitiva, la frontiera su cui, alle soglie del terzo millennio e di un nuovo pontificato, siamo ancora impegnati a lottare, in difesa della libertà di pensiero.
        Non si tratta, naturalmente, di contrapporre alla intransigenza ecclesiastica, come talvolta si dice, una sorta di “integralismo laico”.  L’integralismo laico, checché ne dica un Rocco Buttiglione, non esiste.  Integraliste possono essere solo le religioni, che, disponendo di libri sacri cui riconoscono lo status di verità rivelata e che pure contengono, a volte, dei passaggi imbarazzanti (che so, la storia  della creazione del mondo in sei giorni nella Genesi o la descrizione nel Corano delle delizie carnali che attendono il maschio devoto nell’aldilà) devono decidere se accettarne integralmente la lettera, o sfumarla con una interpretazione storica, allegorica o di altro tipo.  È una scelta, dal loro punto di vista, difficile, spesso drammatica, sulla quale avvengono grosse lacerazioni, perché vi si gioca tutto lo spinoso problema del rapporto tra fede, tradizione e cultura moderna.
Il laicismo è un’altra cosa.  Non avanza pretese di verità e non deve interpretare nessuna rivelazione.  Consiste semplicemente nell’atteggiamento di chi ha deciso – non importa per quale motivo – di non intromettersi nelle opzioni in merito dei suoi simili, anche quando non coincidono con le sue.  Nasce dalla “tolleranza” dell’altro da sé, come l’ha definita il travaglio intellettuale del secolo dei lumi, e si esplicita nel rifiuto di imporre per via coattiva, amministrativa o legale quelle pratiche la cui adozione dipende da un fatto di coscienza.  Può essere inteso, al limite, come una scelta di metodo e, come tale, non è né integralista né non integralista, nel senso che non può spingersi fino a un certo punto e fermarsi lì, non può applicarsi a certe scelte e non ad altre, non può accontentarsi di concessioni parziali o conciliazioni compromissorie, come quelle che può offrire un politico come il cardinale Ruini.  O si è laici o non lo si è.
        Certo, è una posizione difficile.  Chi ne accetta i presupposti è tenuto a rispettare e garantire – ovviamente – la libertà altrui, a costo di dare spazio a individui e organizzazioni che, se appena potessero, della sua libertà farebbero scempio, tanto è vero che alcuni di loro oggi si danno un gran da fare per mantenere in vita una legge che, in nome appunto dei loro principi, limita le scelte nostre.  È una dissimmetria, questa, della quale i clericali sono sempre stati acutamente consapevoli sin dai tempi di Joseph de Maistre e sulla quale hanno sempre giocato alla grande.  E si capisce, perché si tratta, in effetti, di un punto di forza.  Ma visto che, in ultima analisi, si fonda su una contraddizione e le contraddizioni, presto o tardi, si pagano, non escluderei, con tutto il rispetto dovuto alla Chiesa in questi giorni di lutto, che chi vi ci si affida possa andare incontro a qualche brutta sorpresa.

03.04.’05