Discriminanti

La caccia | Trasmessa il: 03/02/2003



Sono bastati pochi giorni, alla maggioranza del sistema politico italiano, per fare piazza pulita di un dibattito che aveva variamente impegnato la cultura occidentale per la bazzeccola di ventiquattro secoli.  Era da quando Sofocle aveva posto il problema con l’Antigone, che risale, salvo errore, al 442 a.C., che i dotti discutevano se l’obbligo di osservare le leggi, ovvio in una società organizzata, non ammettesse, in certe circostanze, le sue brave eccezioni.  L’eroina di quella tragedia, come ricorderete, invocava contro la “legge scritta” il valore di quella “non scritta”, si richiamava – cioè – a un imperativo morale superiore: una posizione che, guarda un po’, non piacque a Platone, che la confutò, una settantina di anni più tardi, nel Critone.  In seguito tra le due posizioni si è sempre oscillato e nel tentativo di trovare una ragionevole mediazione tra le esigenze del diritto e quelle della morale si sono variamente rotti le corna personaggi del calibro di Aristotele e Tommaso di Aquino, per non dire, in età a noi più vicina, di Locke e Rousseau.
        Per i nostri politici, invece, il problema non esiste proprio.  Non appena, lunedì scorso, sono stati segnalati i primi tentativi di bloccare i treni che scorrazzavano per la penisola gli armamenti americani destinati al futuro teatro di guerra dell’Iraq, il responso è stato immediato.  Quei tentativi, quali che fossero le loro finalità e le loro motivazioni, andavano condannati in quanto “illegali”.  E pazienza se la tesi veniva argomentata da un personaggio come Piero Ostellino, il cui compito storico è quello di far perdonare al “Corriere” le rare sbandate antiberlusconiane, o a sostenerla erano i ministri Pisanu e Martino o il presidente Casini, tutta gente da cui difficilmente ci si può aspettare un elogio della libertà di coscienza.  Il problema, come avrete notato, è che a questo interessante punto di vista si è accodata a valanga una buona metà dell’Ulivo, pronta, con la solita dovizia di distinguo e di sfumature, a concordare comunque con Massimo D’Alema sul fatto che “sono sbagliate le forme di lotta che si mettono fuori dalla legalità.”
        Il problema può sembrare superato, visto che settori importanti della sinistra hanno resistito al ricatto e che i blocchi sono continuati per tutta la settimana, dando al mondo un esempio di alto impegno civile, che ha riscattato parzialmente il paese dal cupo servilismo filoamericano del governo.  Ma da quell’improvvido  legalitarismo senza se e senza ma sarebbe forse il caso di diffidare lo stesso.  Il nostro sistema politico, si sa, non ha mai amato le manifestazioni spontanee e le mobilitazioni di base ed è sempre stato pronto a invocare dei criteri generali che le rendessero volta a volta improponibili.  Fino a oggi la discriminante cui si è fatto ricorso con maggiore successo è stata quella della violenza (e ci sarebbe molto da dire, naturalmente, sul livello di malafede con cui si è gestito il dibattito relativo): adesso che a una serie di manifestazioni condotte comunque con una metodologia nonviolenta, si oppone il discrimine della legalità, sarebbe davvero opportuno stabilire dei punti fermi.  Il diritto di rifiutare l’ordine ingiusto, di non collaborare a che l’ordine ingiusto venga eseguito e di non rispettare – quindi – le norme a ciò predisposte (al di là delle preoccupazioni di legalismo formale) fa parte della tradizione democratica e va difeso con fermezza da chiunque vi ci si richiami.  Altrimenti, visto che le discriminanti sono come le ciliegie,  il rischio è quello di trovarsene di fronte, domani, qualcuna nuova di zecca, magari quella del consenso, come a dire la pretesa di considerare lecite solo le manifestazioni che approvano quello che piace alle autorità.   Sembra improbabile, ma è quanto regolarmente succede, da che mondo è mondo, nei paesi in stato di guerra ed è verso la guerra che costoro ci stanno appunto portando.
02.03.’03