Sono bastati pochi giorni, alla maggioranza
del sistema politico italiano, per fare piazza pulita di un dibattito che
aveva variamente impegnato la cultura occidentale per la bazzeccola di
ventiquattro secoli. Era da quando Sofocle aveva posto il problema
con l’Antigone, che risale, salvo errore, al 442 a.C., che i dotti discutevano
se l’obbligo di osservare le leggi, ovvio in una società organizzata,
non ammettesse, in certe circostanze, le sue brave eccezioni. L’eroina
di quella tragedia, come ricorderete, invocava contro la “legge scritta”
il valore di quella “non scritta”, si richiamava – cioè – a un imperativo
morale superiore: una posizione che, guarda un po’, non piacque a Platone,
che la confutò, una settantina di anni più tardi, nel Critone. In
seguito tra le due posizioni si è sempre oscillato e nel tentativo di trovare
una ragionevole mediazione tra le esigenze del diritto e quelle della morale
si sono variamente rotti le corna personaggi del calibro di Aristotele
e Tommaso di Aquino, per non dire, in età a noi più vicina, di Locke e
Rousseau.
Per
i nostri politici, invece, il problema non esiste proprio. Non appena,
lunedì scorso, sono stati segnalati i primi tentativi di bloccare i treni
che scorrazzavano per la penisola gli armamenti americani destinati al
futuro teatro di guerra dell’Iraq, il responso è stato immediato. Quei
tentativi, quali che fossero le loro finalità e le loro motivazioni, andavano
condannati in quanto “illegali”. E pazienza se la tesi veniva argomentata
da un personaggio come Piero Ostellino, il cui compito storico è quello
di far perdonare al “Corriere” le rare sbandate antiberlusconiane, o
a sostenerla erano i ministri Pisanu e Martino o il presidente Casini,
tutta gente da cui difficilmente ci si può aspettare un elogio della libertà
di coscienza. Il problema, come avrete notato, è che a questo interessante
punto di vista si è accodata a valanga una buona metà dell’Ulivo, pronta,
con la solita dovizia di distinguo e di sfumature, a concordare comunque
con Massimo D’Alema sul fatto che “sono sbagliate le forme di lotta che
si mettono fuori dalla legalità.”
Il
problema può sembrare superato, visto che settori importanti della sinistra
hanno resistito al ricatto e che i blocchi sono continuati per tutta la
settimana, dando al mondo un esempio di alto impegno civile, che ha riscattato
parzialmente il paese dal cupo servilismo filoamericano del governo. Ma
da quell’improvvido legalitarismo senza se e senza ma sarebbe forse
il caso di diffidare lo stesso. Il nostro sistema politico, si sa,
non ha mai amato le manifestazioni spontanee e le mobilitazioni di base
ed è sempre stato pronto a invocare dei criteri generali che le rendessero
volta a volta improponibili. Fino a oggi la discriminante cui si
è fatto ricorso con maggiore successo è stata quella della violenza (e
ci sarebbe molto da dire, naturalmente, sul livello di malafede con cui
si è gestito il dibattito relativo): adesso che a una serie di manifestazioni
condotte comunque con una metodologia nonviolenta, si oppone il discrimine
della legalità, sarebbe davvero opportuno stabilire dei punti fermi. Il
diritto di rifiutare l’ordine ingiusto, di non collaborare a che l’ordine
ingiusto venga eseguito e di non rispettare – quindi – le norme a ciò
predisposte (al di là delle preoccupazioni di legalismo formale) fa parte
della tradizione democratica e va difeso con fermezza da chiunque vi ci
si richiami. Altrimenti, visto che le discriminanti sono come le
ciliegie, il rischio è quello di trovarsene di fronte, domani, qualcuna
nuova di zecca, magari quella del consenso, come a dire la pretesa di considerare
lecite solo le manifestazioni che approvano quello che piace alle autorità.
Sembra improbabile, ma è quanto regolarmente succede, da che mondo
è mondo, nei paesi in stato di guerra ed è verso la guerra che costoro
ci stanno appunto portando.
02.03.’03