Dilemmi diplomatici

La caccia | Trasmessa il: 11/05/2006


    Ho letto che nel grande gioco a chi tira la coperta dalla sua parte cui si riduce, con il centrosinistra come con il centrodestra, la preparazione della Finanziaria, si è inserito con l’abituale autorevolezza il vicepresidente D’Alema, inaspettatamente ostile, per motivi che la stampa non ha precisato più di tanto, ma ognuno di noi è libero di ricostruire secondo la propria logica, a un eccesso di tagli al bilancio del suo ministero. Mi è sembrato, anzi, di capire che il suo punto di vista è stato preso nella dovuta considerazione e che le decurtazioni previste sono già state portate a proporzioni più ragionevoli. È quel che succede, se mi permettete la facezia, quando in una posizione così delicata siede un ministro, come si dice, coi baffi. Fosse stato un altro, un personaggio dal labbro malinconicamente glabro e dalle minori potenzialità politiche, la scure di Padoa Schioppa si sarebbe abbattuta impietosa sulla Farnesina e i nostri ambasciatori non avrebbero neanche potuto permettersi di rinfrescare i pennacchi sulle feluche e lucidare i galloni delle uniforme di gala.

    Ci sono, si sa, ministeri e ministeri. Alcuni sono delegati a fornire alla cittadinanza utili, ma prosaici servizi, tipo l’istruzione e la sanità, e sulla necessità di tagliare i bilanci a quelli non c’è, ormai, obiezione che tenga: lo raccomanda l’Unione Europea, lo sollecita la Banca centrale, vi appuntano l’attenzione le agenzie di rating e ne discetta il Financial Times. Altri, slegati dalla banale necessità economica del dare e dell’avere, possono sottrarsi a siffatte pressioni. Della distinzione, lo ammetterete, bisogna tenere conto. Il ministero dell’onorevole D’Alema ha come specifico campo d’interesse la politica estera e della politica estera, diversamente che di una sanità e di una istruzione efficienti, lo stato non può fare a meno.

    Naturalmente si potrebbe discutere a lungo sulla quantità e sulla qualità di politica estera che quella struttura produce. Molti ritengono che in sessant’anni di storia repubblicana ben poca ne sia stata fatta, nel senso che più che di dimostrare la propria strenua fedeltà agli Stati Uniti i vari titolari della carica non si sono mai preoccupati. Anche i governi di centrosinistra, secondo questo tipo di critici, non si sarebbero spinti un gran che oltre: tutti ricordiamo con un certo raccapriccio cosa fece lo stesso D’Alema durante la crisi serba del ’99 e quanto agli eventi più vicini, be’, non è certo il caso di entusiasmarsi per una mediazione in Libano, che, vista con gli occhi di oggi, sembra molto meno mediatoria di quanto non ci sia stato fatto credere mesi fa, o per l’eroica astensione del nostro rappresentante alle Nazioni Unite nella scelta tra Guatemala e Venezuela in Consiglio di Sicurezza. Solidamente legata al carro della Nato (come dimostra, in questi giorni, la nostra partecipazione a certe strane e manovre navali al largo dell’Iran), priva dei margini di autonomia necessari per dire di no, appunto, al Guatemala, l’Italia resterebbe sostanzialmente un paese vassallo, cui poco o nulla servirebbe una complessa macchina diplomatica, essendo limitate le sue opzioni in materia all’assenso perinde ac cadaver alle pretese della Condoleeza di turno.

    Fare a meno della Farnesina, comunque, non si può: lo vietano le leggi e le usanze. Tagliarne il bilancio, nemmeno, perché lo vieta D’Alema. Fare a meno di D’Alema, forse, potrebbe essere un passo nella direzione giusta, ma con quei baffi, dio buono, come si fa?