Non so se avete letto di quella squadra
di calcio tedesca, credo sia il Borussia di Dortmund, i cui dirigenti,
avendo scoperto che uno dei giocatori, poveraccio, è afflitto da un malanno
che potrebbe rivelarsi piuttosto serio, si sono affrettati a informarne,
con un pubblico comunicato, la Borsa di Francoforte. Motivo: la società
era stata appena quotata presso quella Borsa e loro si erano sentiti impegnati
a rendere pubblico un evento in sé non ininfluente sul rendimento della
compagine e, quindi, sul suo valore azionario. In realtà, mi sembra
che il problema non fosse solo di rendimento sportivo, ma riguardasse anche
o soprattutto la possibilità di piazzare quel giocatore sul mercato, cedendolo
a caro prezzo a qualche società doviziosa, ma i due aspetti, naturalmente,
sono legati.
Gliene
hanno detto, naturalmente, di tutte. Li hanno accusati, a ragione,
di non tenere in conto la privacy di un individuo e il segreto professionale
dei medici. L’organismo federale tedesco di controllo sul commercio
dei titoli (si chiama Bawe) ha spiegato che “l’interesse a pubblicare
informazioni dirette agli investitori non significa in alcun modo che si
debbano rendere pubbliche le malattie e le storie sanitarie di chicchessia”.
L’Associazione calciatori ha protestato. Paolo Maldini ha
espresso i più severi commenti. E, non si capisce bene se in conseguenza
di queste critiche o dell’annuncio che le ha provocate, le azioni del
Borussia hanno perso in un solo giorno il 2,6 per cento.
Nessuno,
tuttavia, ha sentito il bisogno di osservare che anche quei dirigenti,
dopotutto, avevano le loro ragioni. Hanno, in un certo senso, obbedito
a un criterio di trasparenza, che, sul mercato borsistico, è una cosa che
più ce n’è più è meglio. Non lo avessero fatto, li si sarebbe potuti
accusare di avere in mente qualche losca operazione di insider trading
o di preparare a danno di azionisti, tifosi e sostenitori una vera e propria
truffa. In fondo, quando hanno appreso della malattia del loro giocatore,
si sono trovati di fronte al classico dilemma senza soluzione. Qualsiasi
decisione avessero preso, in quel dubbio frangente, avrebbero avuto torto.
In un caso li si sarebbe potuti accusare, com’è successo, di essere
cinicamente indifferenti alla privatissima situazione di un uomo malato,
e, nell’altro, di voler nascondere delle informazioni essenziali a chi
era disposto a investire nella causa del Borussia Dortmund i propri sudati
quattrini. Gli investitori, come ha riconosciuto anche la Bawe,
hanno non solo l’interesse, ma anche il diritto di disporre di tutte le
possibili informazioni sui beni in cui pensano di investire.
Sì,
mi direte, ma quel giocatore è un uomo, mica un bene. E bravi: è
proprio questo il punto. È un uomo, sì, ma un uomo le cui prospettive
sono quelle di finire su un mercato e non certo come venditore o acquirente.
Un uomo che non svolge un’attività produttiva (è, dopo tutto, un
giocatore) ma sulla cui attività e su quella dei cui colleghi si fonda
la consistenza patrimoniale di una società per azioni. E quando
un uomo fa parte di un patrimonio, non ci piove, anche se lo pagano fior
di miliardi, è tecnicamente uno schiavo. La contraddizione cui i
suoi dirigenti si sono trovati davanti e che, con tipica pedanteria teutonica,
hanno reso pubblica, riflette in piccolo quella più generale di chi opera
all’interno del sistema di produzione capitalistico utilizzando delle
categorie tipiche dello schiavismo. O, se, per non irritare Berlusconi,
preferite evitare certe categorie squisitamente marxiste, quella insita
nei due stessi termini di “giocatore” e “professionista”.
Speriamo
che quel giocatore guarisca presto. E che si renda conto che, oltre
alla sua abilità di spedire il portone in porta, ha ceduto ai suoi padroni
anche i propri diritti, compreso quello alla privacy (C.O.).
19.11.’00