Difesa delle parole estinte

La caccia | Trasmessa il: 10/31/2004



È straordinario quanto interesse provi per i vocabolari chi scrive di fatti linguistici senza essere esattamente del mestiere.  Sui giornalisti, per esempio, quegli oggetti librari dall’incerto status, sospesi come sono tra la funzione normativa e quella di semplice repertorio, esercitano un fascino incontrollato.  Ogni volta che esce una nuova edizione dello Zingarelli o del Devoto Oli (e succede spesso, trattandosi di prodotti di intenso consumo scolastico), si può contare almeno su un paio di servizi dedicati a “come è cambiata la lingua italiana”.  E a cosa, di fronte al cambiamento, debba fare o non fare chiunque voglia parlare correttamente.
        Così, “La Repubblica” di martedì scorso spende una pagina intera, illustrata a colori, sul “dizionario delle parole morte”.  Ci informa, sin dall’occhiello, che “ogni anno almeno seicento neologismi entrano a far parte della lingua italiana”, ma che “ci sono anche decine di termini che vengono dichiarati estinti.”  Ed è su questi che soprattutto si concentra l’attenzione dell’articolista.  Così, quest’anno, dai dizionari sono spariti, oltre ad alcuni mostri semantici quali l’eurolira e la turismatica, una serie di termini indicanti professioni ormai desuete, tipo rammagliatrici (“donne che riparavano le calze di nailon”), abbadatore (“operaio nella solfatara”), lanavendolo (“chi vendeva in strada la lana”),  vendispago (“canapaio”) e  fatturante, che stava, a quanto pare, per cottimista, anche se in giro di gente costretta da un diffuso inganno normativo a emettere fattura pur dandoci dentro come se lavorasse a cottimo ce n’è, credo, oggi più di prima.   E se sembra difficile che qualcuno si dispiaccia per la sparizione della menomanza nel senso di “diminuzione” e del valicatolo, che era, ci crediate o no, una “passerella su un torrente”, per non dire delle cheche e dei lacchezzi, che indicavano – sembra – i “capricci” e la “moine” in bocca toscana, permettetemi di esprimere tutto il mio sincero rimpianto per le subrettine, che erano oggetto di diffuse cupidigie teatrali e non solo teatrali ai tempi della mia giovinezza e oggi hanno dovuto, ahimè, lasciare il campo al pallido surrogato televisivo delle veline.
        L’elenco, così come ve l’ho recitato, può dare una certa impressione di casualità, ma non è esattamente così.  Alla redazione dello Zingarelli, “15mila interventi su 130mila parole”, lavorano, si scopre, ben quattrocento collaboratori, coordinati dal professor Mario Cannella, e non c’è termine desueto che possa scampare alle loro premure.  Pensate che laggiù tengono persino una cartellina con sopra scritto “Braccio della morte” e “per qualche anno le parole passibili di esecuzione vengono tenute lì, sotto sorveglianza.  Poi una volta l’anno si riunisce il gran consiglio e alcune vengono graziate, altre zac.”  Testuale, ma orribile.
        Personalmente, spero che tutto ciò non sia vero.  Che se lo sia inventato l’articolista, di propria incauta iniziativa o perché traviata dal professor Cannella.  Perché, a parte il fatto che con entità come i bracci della morte non mi par bello scherzare, è chiaro a tutti che non c’è proprio motivo di togliere dai dizionari i termini usciti dall’uso.  Quella di registrarli, anzi, dovrebbe essere una delle funzioni precipue di quelle opere e dei loro autori.  Cosa dovrebbe fare un poveraccio che, leggendo  un testo di qualche anno fa in cui si raccontino, per esempio, i casi di una subrettina tutta cheche e lacchezzi che, decisa a lasciare quell’ambiguo mestiere per amore di un onesto vendelana, decide, a scapito della menomanza di salario, di rifarsi una vita come rammagliatrice, cosa potrebbe fare costui, di fronte a eventuali difficoltà semantiche, se non consultare un buon vocabolario?  Quando non si conosce il significato di una parola, perché dotta, insolita, rara o – appunto – desueta, di solito si fa così.  Ma chi ricorresse , per avventura, all’ultima edizione aggiornata e riveduta, pur potendovi trovare ogni possibile inutile informazione sulle veline (inutile, perché cosa siano le veline oggi lo sanno tutti) non si chiarirebbe nessuno dei suoi pur legittimi dubbi.
        In realtà, l’unica motivazione possibile di questa specie di abiura degli obblighi del buon lessicografo, la si trova tra le righe, quando si accenna, come unica alternativa alla pratica di cassare questa o quella parola, alla possibilità di “rimpicciolire i caratteri e risparmiare le righe”.  Capirete, con settecento neologismi all’anno il vocabolario, inteso come repertorio di parole, cresce più di quanto possa permettersi il vocabolario inteso come volume in vendita dal cartolaio.  E non potendosi rimpicciolire i caratteri all’infinito, ché anzi l’analfabetismo crescente raccomanda l’adozione di un corpo ben leggibile, non c’è altro mezzo che quello di limare i contenuti, se non si vuole proporre tomi sempre più massicci e costosi e finire – quindi – fuori mercato.   Che è un buon esempio, lo ammetterete, di come la logica del commercio possa rendere potenzialmente inutili gli stessi articoli che propone all’acquisto.
        Il risultato, naturalmente, è che al vocabolario, monco sul piano della informazione, finisce col restare solo la funzione prescrittiva, quella di indicare le parole di cui ci si può, anzi ci si deve servire.  Niente termini desueti, dunque (tranne, forse, quelli testimoniati dai “buoni autori”), e dei neologismi soltanto quelli che riescono a filtrare attraverso le barriere erette dai quattrocento collaboratori del professor Cannella, che saranno, non ne dubito, bravissime persone,  ma non si vede perché dovrebbero essere gravati da un compito tanto oneroso.  È la logica della Crusca, d’altronde, la logica di tutte le accademie e di tutte le istituzioni docenti, da sempre impegnate nello sforzo di imbrigliare la natura incoercibilmente anarchica della lingua, la sua capacità di creare quante parole vuole, di cassarle dall’uso per i motivi più futili e di ripescarle senza problemi quando così piaccia ai soggetti che parlano e scrivono.  Il problema potrà sembrarvi di poco conto, ma quella di ricorrere, nell’espressione delle idee, a tutte le cheche e i lacchezzi che vogliamo è una componente non piccola della nostra libertà.  Quella libertà che l’autoritarismo delle istituzioni e le leggi del mercato ogni giorno si sforzano congiuntamente di sopprimere.
31.10.’04