Diciannove anni dopo

La caccia | Trasmessa il: 04/27/2003



L’ossessione di riscrivere la storia non appartiene soltanto agli esponenti del centro destra italiano, che pure l’hanno così largamente esibita in occasione di questo 25 aprile.  Si tratta, in realtà, di un morbo largamente noto agli studiosi di cose umane, il cui significato profondo è stato definito una volta per tutte in quel libro istruttivo e, in quanto tale, straordinariamente sgradevole, che è il 1984 di George Orwell, in cui si giungeva a ipotizzare, se ricordo bene, l’esistenza – in tutti i paesi moderni – di un Ministero della Verità, una struttura amministrativa con il compito di riscrivere le testimonianze del passato (archivi, enciclopedie, libri di storia e quant’altro) onde accordarle alla realtà ideologica del presente, negando quanto del passato i detentori del potere preferivano negare.  Così, per esempio, di due potenze alleate di fresco si poteva affermare che fossero amiche da sempre con il semplice espediente di rimuovere qualsiasi accenno alle guerre che avevano combattuto, con la stessa tecnica, più o meno, con cui i reggicoda di Berlusconi fanno intendere che le camice nere della RSI combattevano, in realtà, al fianco dell’esercito degli Stati Uniti d’America.
L’autore di Omaggio alla Catalogna, naturalmente, non scriveva per il puro gusto di farlo.  In quegli ultimi anni della sua vita era impegnato in una dura polemica con il sistema di potere vigente nell’URSS e consimili pratiche non erano rare in quel paese, come ancor oggi si può constatare dando una scorsa, chi ci riesce, alle edizioni successive della Grande Enciclopedia Sovietica, un’opera cui sembra dedicasse cure particolari, con tutto quello che aveva da fare d’altro, lo stesso Stalin.   Con 1984, naturalmente, lo scrittore intendeva opporre alla propaganda di Stato il valore della verità storica, che, marxisticamente, è sempre rivoluzionaria.  Ed è un peccato che, oggi come oggi, quella pretesa, più che come una manifestazione di libertà intellettuale, rischi di apparirci sotto tutt’altra luce.
Quale, lo si può divinare, oltre che dalle grottesche polemiche di questa settimana, da un articolo sul “Corriere” di un mesetto fa (26 marzo 2003).   A pagina 37 del settore “Cultura”, sotto una citazione di Edgar Quinet, “I popoli liberi sono i soli che abbiano una storia: gli altri hanno solo delle cronache”, che dimostra come anche gli spiriti più pensosi possano, ogni tanto, sparare banalità immani, un titolo a cinque colonne ci informa che “Da Lenin a Tangentopoli la Garzantina fa revisione”.  Sì, la Garzantina, la “Enciclopedia Universale Garzanti”, il più noto repertorio di consultazione rapida disponibile sul mercato librario italiano, diffuso, nei quarant’anni della sua storia editoriale, in oltre due milioni di copie.  Nella sua ultima edizione, in libreria in questi giorni, quell’enciclopedia, leggiamo, “libera il campo da alcune faziosità e stereotipi ideologici trascinatisi per mezzo secolo” e “riempie certi passi mancanti nel racconto del Novecento.”  Che non è cosa da poco, perché “come nell’evoluzione del costume basta allargare uno spacco o approfondire una scollatura per segnare una piccola svolta, qui sono sufficienti un avverbio, un ritocco, un taglio per mutare la prospettiva ed emanciparci dall’ossessione del politically correct.”
Gli esempi concreti di questa asserita rivoluzione non mancano.  Renzo de Felice, per dirne una, non è più l’autore di una “discussa” biografia di Mussolini: “l’aggettivo che lo emarginava rispetto all’ortodossia è evaporato e ciò equivale a una definitiva riabilitazione”.  Il “consenso di massa relativamente largo” che si attribuiva al fascismo è diventato, d’altronde, un “largo consenso di massa” e capirete che la cosa fa la sua bella differenza.  Di Palmiro Togliatti si scrive, finalmente, che “contribuì alla liquidazione del partito comunista polacco, sgradito a Mosca”: prima, a quanto pare, non si poteva.  Raddoppia l’articolo sulle foibe, “di cui sono riclassificate le vittime”.  Su Lenin “cade la remora a precisare che ‘ordinò il terrore di massa contro kulak, pope e guardie bianche’”,  E su Mao, finalmente, “si mette agli atti che la ‘rivoluzione culturale’, giudicata a volte con suggestionata simpatia in Occidente, era consistita in ‘brutali umiliazioni, campi di lavoro, feroci persecuzioni’”.  Significative anche le innovazioni relative al nostro passato recente: “fino all’altro ieri non si poteva dire che Tangentopoli era sfociata anche in ‘forzature processuali’, mentre adesso si può”, del Partito comunista è finalmente lecito dire che “ricevette finanziamenti dall’URSS” e gli assassini di Walter Tobagi, da “sedicenti terroristi” quali erano nelle edizioni passate sono finalmente definiti come un “gruppo di estrema sinistra”.
Io, che ho sempre amato la Garzantina, me ne servo spesso e credo persino di aver collaborato, anni fa, alla stesura di certe sue voci (ma non ricordo quali, per cui non ho potuto controllare se siano state revisionate anche loro), vi confesserò di essere perplesso.  Condivido qualcuno dei nuovi giudizi di cui vi ho dato saggio (non tutti) e, anche se non mi è chiaro chi mai fosse la malvagia entità che finora impediva di aggiornarli, non posso che rallegrarmi della riconquistata libertà dei redattori.  Ma non posso neanche fare a meno di notare che questo è un tipico modo di riscrivere la storia, e senza nemmeno assumersene la relativa responsabilità, perché una cosa è sostenere, in un saggio o in un libro debitamente firmato, che le cose sono andate così e vanno giudicate cosà, che è sempre pratica raccomandabile, e un'altra è calibrare gli aggettivi e limare gli avverbi in modo da modificare un’opera già esistente, della quale, stravolgendone il contenuto, si intende conservare comunque l’autorevolezza.  E se riscrivere la storia, in fondo, è sempre lecito (perché se no non ci sarebbe neanche bisogno della storiografia come scienza), quando quella riscrittura finisce immancabilmente per andare nel senso voluto da chi sta al governo – com’è il caso, in fondo, di tutte le espressioni che abbiamo visto prima –  qualche perplessità la si può anche nutrire.
E Orwell?  Be’, Orwell, da un lato, ci ha preso alla grande, visto che oggi, a diciannove anni dalla data che ha scelto per intitolare la sua distopia, le sue previsioni si avverano con rara puntualità e la storia viene puntualmente manipolata in nome delle esigenze del potere e dell’ossequio che pretende.  Dall’altro ha cannato di brutto, perché il fenomeno, salvo errore, si sta realizzando in forma affatto diversa da quella che aveva ipotizzato lui.  Vedete anche voi che per cambiare la Garzantina, o per stravolgere la storia italiana del biennio 1943-’45, non c’è stato alcun bisogno che intervenisse il Ministero della Verità, o che fosse messo in atto il farraginoso apparato coercitivo previsto in 1984.  Sono cose che, oggi, non servono più.  Basta lasciar fare alla redazione interessata, fidare nella capacità dei professionisti della parola scritta o teletrasmessa di fiutare il vento e adeguarsi ai desiderata di chi non ha dubbi sul fatto che l’unica verità che conti è quella che giova ai propri interessi.  Chi è abituato a falsificare la cronaca del presente non ha, evidentemente, problemi a intervenire sul passato.

Questo il povero George non era riuscito a immaginarselo.  In fondo, quel grande scrittore era soprattutto un ingenuo.

27 aprile 2003