L’ossessione di riscrivere la storia
non appartiene soltanto agli esponenti del centro destra italiano, che
pure l’hanno così largamente esibita in occasione di questo 25 aprile.
Si tratta, in realtà, di un morbo largamente noto agli studiosi di
cose umane, il cui significato profondo è stato definito una volta per
tutte in quel libro istruttivo e, in quanto tale, straordinariamente sgradevole,
che è il 1984 di George Orwell, in cui si giungeva a ipotizzare, se ricordo
bene, l’esistenza – in tutti i paesi moderni – di un Ministero della
Verità, una struttura amministrativa con il compito di riscrivere le testimonianze
del passato (archivi, enciclopedie, libri di storia e quant’altro) onde
accordarle alla realtà ideologica del presente, negando quanto del passato
i detentori del potere preferivano negare. Così, per esempio, di
due potenze alleate di fresco si poteva affermare che fossero amiche da
sempre con il semplice espediente di rimuovere qualsiasi accenno alle guerre
che avevano combattuto, con la stessa tecnica, più o meno, con cui i reggicoda
di Berlusconi fanno intendere che le camice nere della RSI combattevano,
in realtà, al fianco dell’esercito degli Stati Uniti d’America.
L’autore di Omaggio alla Catalogna,
naturalmente, non scriveva per il puro gusto di farlo. In quegli
ultimi anni della sua vita era impegnato in una dura polemica con il sistema
di potere vigente nell’URSS e consimili pratiche non erano rare in quel
paese, come ancor oggi si può constatare dando una scorsa, chi ci riesce,
alle edizioni successive della Grande Enciclopedia Sovietica, un’opera
cui sembra dedicasse cure particolari, con tutto quello che aveva da fare
d’altro, lo stesso Stalin. Con 1984, naturalmente, lo scrittore
intendeva opporre alla propaganda di Stato il valore della verità storica,
che, marxisticamente, è sempre rivoluzionaria. Ed è un peccato che,
oggi come oggi, quella pretesa, più che come una manifestazione di libertà
intellettuale, rischi di apparirci sotto tutt’altra luce.
Quale, lo si può divinare, oltre che
dalle grottesche polemiche di questa settimana, da un articolo sul “Corriere”
di un mesetto fa (26 marzo 2003). A pagina 37 del settore “Cultura”,
sotto una citazione di Edgar Quinet, “I popoli liberi sono i soli che
abbiano una storia: gli altri hanno solo delle cronache”, che dimostra
come anche gli spiriti più pensosi possano, ogni tanto, sparare banalità
immani, un titolo a cinque colonne ci informa che “Da Lenin a Tangentopoli
la Garzantina fa revisione”. Sì, la Garzantina, la “Enciclopedia
Universale Garzanti”, il più noto repertorio di consultazione rapida disponibile
sul mercato librario italiano, diffuso, nei quarant’anni della sua storia
editoriale, in oltre due milioni di copie. Nella sua ultima edizione,
in libreria in questi giorni, quell’enciclopedia, leggiamo, “libera il
campo da alcune faziosità e stereotipi ideologici trascinatisi per mezzo
secolo” e “riempie certi passi mancanti nel racconto del Novecento.”
Che non è cosa da poco, perché “come nell’evoluzione del costume
basta allargare uno spacco o approfondire una scollatura per segnare una
piccola svolta, qui sono sufficienti un avverbio, un ritocco, un taglio
per mutare la prospettiva ed emanciparci dall’ossessione del politically
correct.”
Gli esempi concreti di questa asserita
rivoluzione non mancano. Renzo de Felice, per dirne una, non è più
l’autore di una “discussa” biografia di Mussolini: “l’aggettivo che
lo emarginava rispetto all’ortodossia è evaporato e ciò equivale a una
definitiva riabilitazione”. Il “consenso di massa relativamente
largo” che si attribuiva al fascismo è diventato, d’altronde, un “largo
consenso di massa” e capirete che la cosa fa la sua bella differenza.
Di Palmiro Togliatti si scrive, finalmente, che “contribuì alla
liquidazione del partito comunista polacco, sgradito a Mosca”: prima,
a quanto pare, non si poteva. Raddoppia l’articolo sulle foibe,
“di cui sono riclassificate le vittime”. Su Lenin “cade la remora
a precisare che ‘ordinò il terrore di massa contro kulak, pope e guardie
bianche’”, E su Mao, finalmente, “si mette agli atti che la ‘rivoluzione
culturale’, giudicata a volte con suggestionata simpatia in Occidente,
era consistita in ‘brutali umiliazioni, campi di lavoro, feroci persecuzioni’”.
Significative anche le innovazioni relative al nostro passato recente:
“fino all’altro ieri non si poteva dire che Tangentopoli era sfociata
anche in ‘forzature processuali’, mentre adesso si può”, del Partito
comunista è finalmente lecito dire che “ricevette finanziamenti dall’URSS”
e gli assassini di Walter Tobagi, da “sedicenti terroristi” quali erano
nelle edizioni passate sono finalmente definiti come un “gruppo di estrema
sinistra”.
Io, che ho sempre amato la Garzantina,
me ne servo spesso e credo persino di aver collaborato, anni fa, alla stesura
di certe sue voci (ma non ricordo quali, per cui non ho potuto controllare
se siano state revisionate anche loro), vi confesserò di essere perplesso.
Condivido qualcuno dei nuovi giudizi di cui vi ho dato saggio (non
tutti) e, anche se non mi è chiaro chi mai fosse la malvagia entità che
finora impediva di aggiornarli, non posso che rallegrarmi della riconquistata
libertà dei redattori. Ma non posso neanche fare a meno di notare
che questo è un tipico modo di riscrivere la storia, e senza nemmeno assumersene
la relativa responsabilità, perché una cosa è sostenere, in un saggio o
in un libro debitamente firmato, che le cose sono andate così e vanno giudicate
cosà, che è sempre pratica raccomandabile, e un'altra è calibrare gli aggettivi
e limare gli avverbi in modo da modificare un’opera già esistente, della
quale, stravolgendone il contenuto, si intende conservare comunque l’autorevolezza.
E se riscrivere la storia, in fondo, è sempre lecito (perché se no
non ci sarebbe neanche bisogno della storiografia come scienza), quando
quella riscrittura finisce immancabilmente per andare nel senso voluto
da chi sta al governo – com’è il caso, in fondo, di tutte le espressioni
che abbiamo visto prima – qualche perplessità la si può anche nutrire.
E Orwell? Be’, Orwell, da un
lato, ci ha preso alla grande, visto che oggi, a diciannove anni dalla
data che ha scelto per intitolare la sua distopia, le sue previsioni si
avverano con rara puntualità e la storia viene puntualmente manipolata
in nome delle esigenze del potere e dell’ossequio che pretende. Dall’altro
ha cannato di brutto, perché il fenomeno, salvo errore, si sta realizzando
in forma affatto diversa da quella che aveva ipotizzato lui. Vedete
anche voi che per cambiare la Garzantina, o per stravolgere la storia italiana
del biennio 1943-’45, non c’è stato alcun bisogno che intervenisse il
Ministero della Verità, o che fosse messo in atto il farraginoso apparato
coercitivo previsto in 1984. Sono cose che, oggi, non servono più.
Basta lasciar fare alla redazione interessata, fidare nella capacità
dei professionisti della parola scritta o teletrasmessa di fiutare il vento
e adeguarsi ai desiderata di chi non ha dubbi sul fatto che l’unica verità
che conti è quella che giova ai propri interessi. Chi è abituato
a falsificare la cronaca del presente non ha, evidentemente, problemi a
intervenire sul passato.
Questo il povero George non era riuscito
a immaginarselo. In fondo, quel grande scrittore era soprattutto
un ingenuo.
27 aprile 2003