Suppongo che nessuno di voi si sia stupito
più di tanto apprendendo che, alla recente assemblea della Confindustria
il presidente degli industriali italiani si sia dichiarato felicissimo
del cambio di maggioranza e non abbia nascosto la fiducia di ottenere dal
nuovo governo quanto da tempo agli industriali sta a cuore: tagli allo
stato sociale, congrue riduzioni fiscali alle industrie, mano libera nei
rapporti con la forza lavoro, inclusa la libertà di licenziare chi e come
vogliono senza che il sindacato ci si metta di mezzo. Si parla tanto
di libertà e di diritti, ma quando si giunge al dunque i padroni non mancano
mai di far notare che l’unica libertà e l’unico diritto che gli interessa
davvero è quello di fare i soldi e di tenerseli stretti. Adesso che
al governo ci va uno di loro, naturalmente, possono dirlo forte e chiaro,
senza ricorrere alle fastidiose mediazioni del linguaggio politico. Così
va il mondo e sarebbe sciocco fingere che vada in qualche altro modo. È
un aspetto anche questo di quel colossale conflitto di interessi (un conflitto
di cui quello di Berlusconi rappresenta, in definitiva, solo un caso particolare)
noto con il nome di capitalismo.
L’unico
a restarci davvero male, a quanto sembra, è stato il quasi ex ministro
Fassino. Presente al discorso di D’Amato, costui si è dichiarato
“deluso, molto deluso”. Quella relazione gli è sembrata “ingenerosa
verso il centrosinistra e troppo appiattita con il governo che verrà”.
In fondo, ha detto, “una Confindustria che rivendica la sua autonomia
non dovrebbe aver paura di dare a Cesare quel che è di Cesare.” E
“se oggi gli imprenditori possono chiedere a chi governa di misurarsi
con le nuove sfide della competitività lo si deve alle strategie di rinnovamento
e di crescita messe in campo dagli esecutivi di centrosinistra”.
Come a dire: ma insomma, abbiamo fatto tanto per voi e adesso ci ringraziate
prendendoci a calci? Ma che modi sono questi?
Strano
tipo, eh, quel Fassino. In fondo è stato lui, all’indomani delle
elezioni, a presentarsi in televisione per spiegare che, tutto sommato,
i risultati non erano così da buttare, perché l’Ulivo aveva tenuto abbastanza
e il Cavaliere, in termini di voti assoluti, era addirittura in minoranza.
A confrontare quelle dichiarazioni con questa intervista (“Repubblica”,
venerdì 25 u.s.) si direbbe che il poveraccio sia stato più deluso dall’ingratitudine
degli industriali che dalla sberla dell’elettorato. Ma forse il
problema non è solo suo. È il problema generale di una classe politica
che, in nome di un supposto “interesse generale” ha perso il senso degli
interessi concreti che dovrebbe rappresentare. Che si stupisce se
quello che una volta (ma non tantissimo tempo fa, in fondo) si definiva
l’avversario di classe non si compiace degli sforzi che la sinistra al
governo ha compiuto per permettere agli industriali di “misurarsi con
le nuove sfide della competitività”. Che, in definitiva, ha fatto
propria la cultura dell’avversario e, non per bocca dell’ultimo imbecille
di passaggio, che ce ne sono tanti, a sinistra come a destra, ma per quella
di colui che, per scelta unanime, dovrebbe guidare fuori dalle secche attuali
quanto resta del principale partito della sinistra, deplora solennemente
che tanto sforzo non sia stato adeguatamente apprezzato e premiato.
Come
diceva quel tale, facciamoci forza perché sarà un lungo inverno.
C. Oliva, 27.05.01