Vi confesserò che qualche anno fa la decisione degli organi competenti
dell’Unione Europea di mettere al bando, a tempo indeterminato e
con poche, insignificanti eccezioni (almeno dal punto di vista italiano),
la vendita e il consumo di carne bovina con l’osso, definizione sotto
la quale rientrano le celebri costate alla fiorentina – le “T bones”,
come prosaicamente le si definisce nelle aree di lingua inglese – mi avrebbe
colpito molto di più di quanto non mi colpisca ora. Non perché di
fiorentine o “T bones” fossi allora un consumatore particolarmente assiduo.
Erano, anzi, un prodotto cui mi capitava rarissimamente di accedere:
una portata rara e preziosa, che resta legata, nella mia memoria, a occasioni
straordinarie, come certi pranzi favolosi che occasionalmente mi offriva,
quando ero ancora un ragazzo, uno zio prodigo e buongustaio in una “buca”,
come a dire una tipica trattoria toscana spersa nei carrugi di Genova,
che era solito frequentare, o alle occasioni, altrettanto rare, in cui
mi capitava, anni dopo, di essere ospite dell’amico Accame al ristorante
del centro di Coverciano, dove lui spezzava il pane della scienza a pro
di allenatori e direttori sportivi e i cuochi, ammirati, facevano a gara
nel sottoporgli i tagli di carne più sostanziosi e succulenti. Di
vere, autentiche fiorentine – di fatto – in vita mia ne ho degustate
pochissime. Ma rappresentavano tuttavia, nell’immaginario gastronomico
che condividevo (e condivido tuttora) con i miei coetanei, un ideale alimentare
da cui non si poteva prescindere. La bistecca, o, meglio, la costata,
il grosso trancio sanguinolento con l’osso era, in un certo senso, il
top della mensa. La mia generazione, naturalmente, non soffriva
di penuria di carne: era, anzi, la prima per cui le proteine animali comparissero
in tavola regolarmente, almeno una volta al giorno, ma c’era una bella
differenza tra la quotidiana fettina, tra la porzione consueta di bollito,
di arrosto o di stufato con le verdure e la vera, autentica, sostanziosa
bistecca. Passare dal brasato alla bistecca rappresentava, si licet,
un’esperienza analoga a quella del prigioniero nella caverna platonico,
quando dalla visione di semplici ombre sul muro assurge a quella dell’estrinsecazione
diretta delle idee iperarunie. Insomma. la fiorentina si poteva considerare
la quidditas della carne. Tanto è vero che, verso la metà degli anni
’50, Roland Barthes, nel suo Mythologies, un libro che l’Accame di cui
sopra avrebbe fatto pubblicare in Italia, con il titolo di Miti d’oggi,
nel 1962, avrebbe dedicato alla bistecca, “il cuore della carne, la carne
allo stato puro”, quella da cui “chiunque se ne cibi assimila forza taurina”,
alcune delle sue pagine più ispirate. E anche se il noto semiologo
teneva d’occhio soprattutto la realtà del suo paese, non occorreva essere
francesi per riconoscere l’alto valore mitico di quel nobile alimento.
Ahimè, oggi è cambiato tutto. E il processo ha delle
radici lontane. Anche prima del bando dell’Unione Europea, la carne
aveva perso da tempo il suo carattere di alimento privilegiato. Da quando
la sua natura non è stata più quella di un prodotto raro, la cui somministrazione
quotidiana poteva essere garantita, al più, da una prescrizione medica
in caso di anemia perniciosa, il suo destino era segnato. La
disponibilità aveva cominciato a significare assuefazione e l’assuefazione
sazietà. E la sazietà, in una società culturalmente insicura come
la nostra, suscita sempre il rifiuto. Improvvisamente, a un certo punto
(più o meno nell’epoca in cui io doppiavo riluttanti la boa dei quarant’anni)
mangiar carne era diventata un’attività di cui non era bello gloriarsi.
Costretti a una lunga guerra di logoramento contro le schiere dei
fautori della soia, dei timorosi del colesterolo e dei deprecatori dei
trigliceridi, i carnivori avevano dovuto cedere una posizione dopo l’altra.
Ormai si erano ridotti al ruolo, della minoranza tollerata, un ruolo
notoriamente assai scomodo in una comunità intollerante. Chi mangiava
carne lo faceva ormai senza gloriarsene, come se obbedisse a un istinto
che, solo che fosse riuscito a resistere ai suoi appetiti, avrebbe
fatto assai meglio a dominare. Tutti aspettavano, aspettavamo, il
divieto finale con l’impazienza nascosta di chi sa che dal divieto sarà,
più che afflitto, sollevato.
Scherzo, naturalmente. Di carne si continuerà
a mangiarne, livelli di colesterolo permettendo, e il bando dell’Unione
Europea riguarda soltanto i tagli bovini con l’osso. Ma visto che
questi tagli rappresentavano, almeno nell’immaginario, la quintessenza
di quel prodotto, il significato simbolico del divieto resta comunquemolto
alto. Le autorità fanno il loro mestiere. Di fronte a un’emergenza,
a un pericolo, a una inquietudine diffusa nella popolazione (non importa
quanto e se motivata) devono reagire con un provvedimento. E siccome
è più facile vietare qualcosa che inventare qualcosa d’altro, nove volte
su dieci il provvedimento è un divieto. Ma non tutto si può vietare,
naturalmente: dipende dalla natura e dallo spessore degli interessi coinvolti,
soprattutto quando l’organo preposto esprime, come gli organi comunitari
europei, un’esigenza di mediazione tra interessi contrapposti. In questi
casi è più facile, naturalmente, vietare qualcosa che culturalmente non
è tanto ben saldo, qualcosa il cui valore traballa e i cui fautori sono,
sostanzialmente, incerti. Si può vietare la bistecca solo in una
società che della carne, in un modo o nell’altro, diffida. Come
insegnava a suo tempo Brenno re dei Galli, i vinti hanno sempre torto.
D’altronde, se così non fosse, se il bando, invece
che dalla necessità di dimostrare una sollecitudine qualsivoglia a spese
di una parte debole, dipendesse dalla volontà di eliminare senza indugi
uno stato di pericolo diffuso, il divieto non sarebbe, com’è, postdatato
a due mesi. È fin troppo ovvio che se il pericolo c’è, i provvedimenti
per prevenirlo vanno presi subito, a effetto immediato. Certo, bisogna
prevedere i tempi tecnici necessari perché alle nuove disposizioni gli
interessati si adeguino, ma, tempi tecnici o non tempi tecnici, i casi
restano essenzialmente due. O la carne di manzo con l’osso è pericolosa,
e allora, non c’è santi, è opportuno darci un taglio da subito, e per
quel che riguarda gli operatori del settore ci spiace tanto e cercheremo
tutti di dargli in qualche modo una mano, o se pericolosa non è non si
vede perché vietarla a partire dal prossimo primo marzo. Solo ammettendo
che quel decreto abbia un valore, fondamentalmente, simbolico, il differimento
della sua esecuzione ha un senso qualsiasi. L’effetto simbolico,
in questi casi, si dispiega da subito: i due mesi servono per mettersi
d’accordo sulle conseguenze concrete, per mediare tra i vari interessi
in gioco. Che tra questi interessi ci siano anche quelli dei consumatori,
che hanno tanto il diritto di non vedersi sottoporre prodotti nocivi quanto
quello di non essere privati di prodotti che nocivi non sono, non è cosa
che, a quanto pare, interessi a nessuno.
Carlo Oliva, 11.02.’01