Decadenza di un mito

La caccia | Trasmessa il: 02/11/2001





Vi confesserò che qualche anno fa la decisione degli organi competenti dell’Unione  Europea di mettere al bando, a tempo indeterminato e con poche, insignificanti eccezioni (almeno dal punto di vista italiano), la vendita e il consumo di carne bovina con l’osso, definizione sotto la quale rientrano le celebri costate alla fiorentina – le  “T bones”, come prosaicamente le si definisce nelle aree di lingua inglese – mi avrebbe colpito molto di più di quanto non mi colpisca ora.  Non perché di fiorentine o “T bones” fossi allora un consumatore particolarmente assiduo.  Erano, anzi, un prodotto cui mi capitava rarissimamente di accedere: una portata rara e preziosa, che resta legata, nella mia memoria, a occasioni straordinarie, come certi pranzi favolosi che occasionalmente mi offriva, quando ero ancora un ragazzo, uno zio prodigo e buongustaio in una “buca”, come a dire una tipica trattoria toscana spersa nei carrugi di Genova, che era solito frequentare, o alle occasioni, altrettanto rare, in cui mi capitava, anni dopo, di essere ospite dell’amico Accame al ristorante del centro di Coverciano, dove lui spezzava il pane della scienza a pro di allenatori e direttori sportivi e i cuochi, ammirati, facevano a gara nel sottoporgli i tagli di carne più sostanziosi e succulenti.  Di vere, autentiche fiorentine – di fatto – in vita mia ne ho degustate pochissime.  Ma rappresentavano tuttavia, nell’immaginario gastronomico che condividevo (e condivido tuttora) con i miei coetanei, un ideale alimentare da cui non si poteva prescindere.  La bistecca, o, meglio, la costata, il grosso trancio sanguinolento con l’osso era, in un certo senso, il top  della mensa.  La mia generazione, naturalmente, non soffriva di penuria di carne: era, anzi, la prima per cui le proteine animali comparissero in tavola regolarmente, almeno una volta al giorno, ma c’era una bella differenza tra la quotidiana fettina, tra la porzione consueta di bollito, di arrosto o di stufato con le verdure e la vera, autentica, sostanziosa bistecca.  Passare dal brasato alla bistecca rappresentava, si licet, un’esperienza analoga a quella del prigioniero nella caverna platonico, quando dalla visione di semplici ombre sul muro assurge a quella dell’estrinsecazione diretta delle idee iperarunie.  Insomma. la fiorentina si poteva considerare la quidditas della carne.  Tanto è vero che, verso la metà degli anni ’50, Roland Barthes, nel suo Mythologies, un libro che l’Accame di cui sopra avrebbe fatto pubblicare in Italia, con il titolo di Miti d’oggi, nel 1962, avrebbe dedicato alla bistecca, “il cuore della carne, la carne allo stato puro”, quella da cui “chiunque se ne cibi assimila forza taurina”, alcune delle sue pagine più ispirate.  E anche se il noto semiologo teneva d’occhio soprattutto la realtà del suo paese, non occorreva essere francesi per riconoscere l’alto valore mitico di quel nobile alimento.

      Ahimè, oggi è cambiato tutto. E il processo ha delle radici lontane.  Anche prima del bando dell’Unione Europea, la carne aveva perso da tempo il suo carattere di alimento privilegiato. Da quando la sua natura non è stata più quella di un prodotto raro, la cui somministrazione quotidiana poteva essere garantita, al più, da una prescrizione medica in caso di anemia perniciosa,  il suo destino era segnato.  La disponibilità aveva cominciato a significare assuefazione e l’assuefazione sazietà.  E la sazietà, in una società culturalmente insicura come la nostra, suscita sempre il rifiuto. Improvvisamente, a un certo punto (più o meno nell’epoca in cui io doppiavo riluttanti la boa dei quarant’anni) mangiar carne era diventata un’attività di cui non era bello gloriarsi.  Costretti a una lunga guerra di logoramento contro le schiere dei fautori della soia, dei timorosi del colesterolo e dei deprecatori dei trigliceridi, i carnivori avevano dovuto cedere una posizione dopo l’altra.   Ormai si erano ridotti al ruolo, della minoranza tollerata, un ruolo notoriamente assai scomodo in una comunità intollerante.  Chi mangiava carne lo faceva ormai senza gloriarsene, come se obbedisse a un istinto che, solo che fosse riuscito a resistere ai suoi appetiti,  avrebbe fatto assai meglio a dominare.  Tutti aspettavano, aspettavamo, il divieto finale con l’impazienza nascosta di chi sa che dal divieto sarà, più che afflitto, sollevato.

      Scherzo, naturalmente.  Di carne si continuerà a mangiarne, livelli di colesterolo permettendo, e il bando dell’Unione Europea riguarda soltanto i tagli bovini con l’osso.  Ma visto che questi tagli rappresentavano, almeno nell’immaginario, la quintessenza di quel prodotto, il significato simbolico del divieto resta comunquemolto alto.  Le autorità fanno il loro mestiere.  Di fronte a un’emergenza, a un pericolo, a una inquietudine diffusa nella popolazione (non importa quanto e se motivata) devono reagire con un provvedimento.  E siccome è più facile vietare qualcosa che inventare qualcosa d’altro, nove volte su dieci il provvedimento è un divieto.  Ma non tutto si può vietare, naturalmente: dipende dalla natura e dallo spessore degli interessi coinvolti, soprattutto quando l’organo preposto esprime, come gli organi comunitari europei, un’esigenza di mediazione tra interessi contrapposti. In questi casi è più facile, naturalmente, vietare qualcosa che culturalmente non è tanto ben saldo, qualcosa il cui valore traballa e i cui fautori sono, sostanzialmente, incerti.  Si può vietare la bistecca solo in una società che della carne, in un modo o nell’altro, diffida.  Come insegnava a suo tempo Brenno re dei Galli, i vinti hanno sempre torto.

      D’altronde, se così non fosse, se il bando, invece che dalla necessità di dimostrare una sollecitudine qualsivoglia a spese di una parte debole, dipendesse dalla volontà di eliminare senza indugi uno stato di pericolo diffuso, il divieto non sarebbe, com’è, postdatato a due mesi.   È fin troppo ovvio che se il pericolo c’è, i provvedimenti per prevenirlo vanno presi subito, a effetto immediato.  Certo, bisogna prevedere i tempi tecnici necessari perché alle nuove disposizioni gli interessati si adeguino, ma, tempi tecnici o non tempi tecnici, i casi restano essenzialmente due.  O la carne di manzo con l’osso è pericolosa, e allora, non c’è santi, è opportuno darci un taglio da subito, e per quel che riguarda gli operatori del settore ci spiace tanto e cercheremo tutti di dargli in qualche modo una mano, o se pericolosa non è non si vede perché vietarla a partire dal prossimo primo marzo.   Solo ammettendo che quel decreto abbia un valore, fondamentalmente, simbolico, il differimento della sua esecuzione ha un senso qualsiasi.  L’effetto simbolico, in questi casi, si dispiega da subito: i due mesi servono per mettersi d’accordo sulle conseguenze concrete, per mediare tra i vari interessi in gioco.  Che tra questi interessi ci siano anche quelli dei consumatori, che hanno tanto il diritto di non vedersi sottoporre prodotti nocivi quanto quello di non essere privati di prodotti che nocivi non sono, non è cosa che, a quanto pare, interessi a nessuno.


Carlo Oliva, 11.02.’01