Il ragazzino seduto davanti a me in
tram ha l’aria buona, gli occhiali spessi e i capelli tagliati corti.
Indossa un paio di pantaloni a tre quarti che a me sembrano troppo
larghi, anche se so che adesso vanno di moda così, e una maglietta nera
di cotone su cui spicca in bianco, a caratteri di scatola, la scritta LIFE
IS SHORT, FIGHT HARD: “La vita è breve, lotta duramente.” Un
motto suggestivo per chiunque abbia una qualche nozione di inglese, anche
se il suo portatore, che sarà, a occhio e croce, sui quindici anni,
non può avere un’idea molto precisa su quanto realmente la vita sia breve
e, con quella sua aria vagamente imbambolata, non sembra troppo propenso
alle lotte e ai combattimenti. Ma, in fondo, quel verbo, in inglese
come in italiano, copre uno spettro semantico abbastanza ampio perché lo
si possa applicare a qualsiasi soggetto. Non si lotta soltanto menando
le mani o prendendo il nemico a cannonate: lo si fa anche impegnandosi
a non deflettere dagli obiettivi che si considerano opportuni e desiderabili.
Tanto è vero che c’è chi lotta per la pace, o afferma di farlo,
e nessuno avverte nel suo impegno la benché minima sfumatura di contraddizione.
D’altra
parte… d’altra parte il fatto che quella esortazione sia icasticamente
connessa all’affermazione della brevità della vita un po’ fa pensare.
Perché mai, in definitiva, la coscienza della fugacità del nostro
itinerario terreno dovrebbe spingerci alla lotta, e per di più dura? Forse
perché, come osservavamo dianzi, “lotta” è sinonimo di “impegno” e
solo nell’impegno, nella costante dedizione a un ideale, la vita dell’uomo
trova un significato che ne compensa l’irrilevanza sul piano cosmico?
Può darsi, ma il messaggio, francamente, mi sembra un po’ troppo
serioso per una maglietta. Le frasi sulle magliette esprimono spesso
delle verità importanti, ma, a parte il fatto che, in genere, tendono ad
alleggerirne l’impatto presentnadole in forma di battuta, di solito la
loro saggezza è di un tipo, diciamo così, pratico. Una pura e semplice
esaltazione dello Streben goethiano mi sembra, in quella sede, un tantino
fuori luogo.
Quale
può essere, allora, l’invito che la saggezza pratica fa seguire alla presa
di coscienza di quanto sia effimera questa nostra esistenza? Non
è una domanda difficile: da sempre, generazioni di poeti ci hanno esortato
in tutte le lingue a godere dei doni che la vita ci offre, a non lasciarci
sfuggire una rosa che sia una, a dilettarci, finché possiamo, del vino
della coppa, a cogliere il giorno che fugge quam minime creduli postero.
E, a pensarci bene, di magliette inscritte con le più ingegnose variazioni
sul tema del carpe diem mi ricordo di averne visto in giro parecchie.
Sì,
d’accordo, direte voi, ma la lotta? Be’, in questo contesto, la
lotta, intesa nel senso meno metaforico possibile, si spiega sin troppo
bene. I doni della vita, ahimè, sono tali solo fino a un certo punto.
In linea di massima, bisogna guadagnarseli. Non solo: bisogna
evitare che se li accaparrino gli altri. Siamo in più di sei miliardi,
su questo pianeta acciaccato, e di rose non ce ne sono per tutti. Se
vuoi goderti la vita, mio caro ragazzo, devi essere sempre pronto a mollare
qualche sganassone alla concorrenza.
Insomma,
quella frase, che a prima vista sembrava la traduzione in inglese di una
massima del marchese De Coubertin, può essere benissimo l’originale di
un’esortazione di Cassius Clay. D’altronde, to fight in inglese
non esprime solo un generico “lottare”, in senso proprio o figurato.
Può riferirsi anche a forme altamente specifiche di combattimento.
Come il suo omologo tedesco fechten ha finito con lo specializzarsi
nel significato tecnico di “praticare la scherma”, to fight, nei contesti
appropriati, si usa per indicare l’attività di chi tira di boxe, e siccome
chi tira di boxe non è, nella maggior parte dei casi, famoso per la delicatezza
dei modi, significa anche “picchiare” e “pestare”, o anche, come scoprirò
una volta tornato a casa sul mio vocabolario, to use aggressive rough tactics,
“usare una tattica rude e aggressiva”. Insomma, la vita è breve
e tu pesta giù duro.
Di
primo acchito, l’idea che un giovane dall’aspetto così mite andasse in
giro con un’esortazione del genere impressa a grandi caratteri sul torace
mi ha un poco immelanconito. Poi sono consolato riflettendo che la
conoscenza media delle lingue straniere nelle nostre scuole non è di livello
tale di permettere a tutti di cogliere certe sfumature. Al ragazzino
sul tram, probabilmente, quella scritta era piaciuta per quel tanto di
anticonformista e ribelle che ci si può cogliere a prima vista e lui, esibendola,
intendeva esprimere semplicemente il rifiuto di una concezione troppo melensa
del mondo. Anch’io, in età non proprio pari alla sua, ma, tutto
sommato, abbastanza giovanile, ero solito scandire slogan che esortavano
alla lotta dura senza paura e non per questo venivo meno – ve lo assicuro
– alla mia innata mitezza.
Il
vero guaio è che nell’esortazione a pestare gli altri per sottrargli la
loro parte di doni della vita (o, se vi sentite di umore prosastico, di
beni di consumo) non c’è proprio nulla di ribelle o di anticonformista.
Nell’invito a impiegare, nell’approccio con l’esistente, una tattica
rude e aggressiva, perché è ai propri personali interessi che bisogna,
in prima istanza, badare e gli altri si grattino pure, consiste, in ultima
analisi, l’ideologia ufficiale del governo in carica. E che non
si tratti dell’aberrazione di un ceto politico fuori di testa, ma di un
punto di vista radicato nel corpo sociale, lo dimostra non solo l’ampia
maggioranza e la diffusa simpatia di cui quel governo gode nel paese, ma
il fatto che la stessa opposizione non sembra disposta a impegnarsi su
formulazioni, tutto sommato, diverse. E sì, ammetto che quando ti
vengono in mente la protervia del governo e la remissività dell’opposizione,
l’invito a pestare giù duro può apparire straordinariamente allettante,
ma forse non è il caso. La vita è breve, usate il cervello.
19.05.02