Curriculum

La caccia | Trasmessa il: 05/30/2004



Una volta, in Italia, a chi cercava lavoro poteva molto giovare una raccomandazione del parroco e se si poteva contare su un vescovo era meglio ancora.   Eravamo un paese arretrato e tradizionalista, in cui il controllo sociale, per forza di cose, passava attraverso l’organizzazione capillare delle strutture ecclesiastiche.   Non che ai prestatori d’opera, in realtà, interessasse particolarmente la religione dell’applicante, visto che si dava per scontato che fossimo cattolici tutti (salvo qualche ebreo, due o tre servi di Mosca e quei pochi eccentrici di cui era inutile darsi pena), ma quel tipo di garanzia suonava, comunque, tranquillizzante.  Da un frequentatore assiduo dei confessionali e degli oratori ci si poteva aspettare, per lo meno, che non prestasse orecchio alle lusinghe dei marxisti senza dio e che non avesse in tasca la tessera della CGIL.
        Sono cambiati i tempi e di certi preti, probabilmente, i padroni o chi per loro oggi si fiderebbero meno che dei sindacalisti.  E poi, via, siamo un paese laico, in cui la libertà di pensiero è garantita dalla Costituzione e protetta dalla legge.  Informarsi sulle convinzioni ideologiche e religiose dei dipendenti, o aspiranti tali, oltre che indiscreto, è espressamente vietato.  E nessuno certo, salvo – forse – gli aspiranti a un posto di sagrestano, si sognerebbe, nel compilare il curriculum vitae da inviare ai vari uffici del personale, di precisare di essere cristiano, animista, idolatra o che altro.  Se qualcuno glielo chiedesse, anzi, avrebbe tutti i diritti di invitarlo a farsi gli affari suoi.
        Mica vero.  Una nostra ascoltatrice che lavora – in posizione, suppongo, di una certa responsabilità – in una società del settore moda, ci comunica di aver ricevuto appunto un curriculum in cui la candidata, una ragazza straniera, si dichiara cristiana prima ancora di esibire i suoi titoli.  Titoli, si badi, che non sono da poco: comprendono una laurea, una discreta esperienza nel settore, un certo numero di riconoscimenti importanti, la capacità di parlare correttamente cinque lingue e di saper usare tutte le più aggiornate diavolerie informatiche e, last but nont least, il fatto di essere cittadina comunitaria, immune, quindi, da problemi di permessi di lavoro e simili vessazioni.  Un profilo, in definitiva, che non sembra aver bisogno di integrazioni di natura, diciamo così, ultraterrena.
        C’è, tuttavia, un particolare da considerare.  L’aspirante in questione è, sì, cittadina di un paese dell’Unione Europea, ma è di origini armene e – per di più – è nata a Tehran.  Difficile sfuggire all’impressione, espressa anche dalla nostra corrispondente, che “abbia ritenuto consigliabile chiarire la propria confessione a causa della sua provenienza geografica”.  E si capisce.  Degli armeni in Italia non devono essere in moltissimi a sapere qualcosa di preciso, ma quanto basta per sospettare che abbiano a che fare, in qualche modo, con il Medio Oriente, sì.  A Tehran, poi, ci sono gli ayatollah, proprio come a Nassiriya.  Uhm…  Non la immaginate anche voi la diffidenza di certi imbecilli verso chi si azzardasse a esibire come se nulla fosse un’origine di questo genere?  Meglio mettersi al sicuro, molto meglio spiegare che si è cristiani e con quel tipo di gente, quindi, non si ha proprio nulla a che fare.  Probabilmente, avendo fatto in Italia gli studi universitari, la ragazza sa che il nostro si definisce un paese laico, ma, in tutta evidenza, di quella definizione non si fida.
        Non vedo, personalmente, come darle torto.  Il nostro è un paese laico in cui l’intera classe dirigente ripete da più di un anno a questa parte che uno dei compiti del governo è quello di difendere la civiltà occidentale contro il fondamentalismo islamico, aggiungendo il più delle volte che di islamici non fondamentalisti, a ben vedere, in giro non ce ne sono.  La nostra aspirante designer di moda, lo spero per lei,  non avrà avuto molto a che fare con gli ambienti leghisti e le saranno così sfuggite le sparate dell’onorevole Borghezio e dei pari suoi, ma le sarà bastato, negli ultimi mesi, sfogliare un paio di volte il “Corriere della Sera” per imbattersi in prima pagina in un qualche articolo di Magdi Allam in cui si spiega come nel nostro paese tra le comunità sciite, nelle moschee e negli altri luoghi di culto islamici, sotto i panni stessi dei loro dirigenti e pastori, si celino minacce di ogni tipo alla civiltà e alla democrazia.  Come se il terrorismo – che pure ha nella tradizione culturale del nostrio Occidente delle radici, ahimè, piuttosto profonde –  oggi fosse un fatto eminentemente orientale e medio orientale, al punto da giustificare una certa legittima cautela e un accorato invito alla vigilanza nei confronti da chiunque  provenga da quelle parti del mondo.
        La nostra ascoltatrice ci scrive che “l’importanza che sta riassumendo la religione” la “inquieta non poco”.  Inquieta non poco anche me.  Ma forse in questo caso la religione c’entra solo fino a un certo punto.   Almeno se la consideriamo, laidamente, un fatto di coscienza personale, un elemento costitutivo della spiritualità dei singoli.  Con i tempi che corrono, non credo proprio che di tutto ciò importi molto a nessuno.  L’aspetto della religione che interessa a quei tipi lì è ancora l’antica maledizione tribale, il rifiuto razzista di immedesimarsi con l’altro, l’impulso beatificato a respingerlo e soggiogarlo.  Un atteggiamenti che, come capita spesso ai fanatici, è simmetrico e speculare a quello che si rimprovera al supposto avversario.  Anzi, è un modo classico per costruirsi un avversario, per negare diritti, imporre gerarchie e scavare fossati senza tirare in ballo quei maledetti interessi concreti che, in questi casi, si preferisce sempre non nominare.
        Ahimè, è vero che per combattere le guerre sante, come tutte le guerre, bisogna essere in due.   Ma è sempre meglio stare attenti a coloro che combattono nelle nostre fila, che sostengono di essere dalla nostra parte.  Sono loro quelli che fanno più danno.

30.05.’04