Mesi fa, la repubblica di Tuvalu, nel
Pacifico meridionale, ha deciso, per far quadrare il bilancio, di mettere
in vendita la sigla identificativa del proprio dominio in Internet. Capirete,
quella sigla suonava “tv” ed era ambita da molte grandi corporation televisive,
cui, per il proprio indirizzo, sembrava più adeguata di un banale “com”.
È
di questi giorni (di giovedì 20 novembre, per la precisione) la notizia
che il regno delle Isole Tonga, che si trova sempre da quelle parti, si
è risolto, per ovviare a certe ristrettezze finanziarie, a vendere a una
ditta australiana di biotecnologie i diritti sul proprio patrimonio genetico.
L’isolamento in cui sono vissute per secoli quelle popolazioni
lo rende particolarmente puro e quindi prezioso. Cosa significhi
nel concreto una transazione del genere proprio non saprei dirvi, ma mi
sembra evidente che le acque del Sud Pacifico sono abbastanza cattive perché
gli isolani si vendano tutto quello che possono. Per chi, come me,
era ancora legato all’illusione romantica della Polinesia come “ultimo
paradiso” – spiagge immacolate, palmizi fruscianti e gente festosa –
è un duro colpo.
Tuttavia,
visto che non sono soltanto i tuvaluni e i tonghesi ad aver bisogno di
sostegno economico, quella notizia induce a un interrogativo inquietante.
Noi italiani, se proprio arrivassimo alle strette, se l’euro, nella
sua irresistibile discesa agli inferi, azzerasse una volta per tutte la
nostra povera lira, cosa potremmo venderci?
È
un problema. Visto che il nostro identificativo Internet non interessa
a nessuno e che il patrimonio genetico nazionale, dopo tremila anni di
invasioni varie, è un po’ troppo misto per essere utile, dovremmo cercare
qualche articolo, diciamo, più tradizionale. Ma le industrie ce le
siamo già vendute quasi tutte, il patrimonio artistico e culturale è troppo
in cattivo stato per affrontare la prova dei mercati e quanto al clima
e al paesaggio, un tempo tanto rinomati all’estero, be’, è meglio non
ricordare che cosa ne abbiamo fatto.
Permettetemi,
per una volta, una modesta, ma concreta proposta. Io offrirei in
vendita Silvio Berlusconi. Può sembrare un’idea bizzarra, ma in
fondo ci sarebbe da farci dei bei quattrini. Un signore capace di
far pagare meno tasse a tutti e di offrire in compenso pensioni più dignitose,
città più sicure, un aiuto a chi è rimasto indietro, un bambino in ogni
famiglia e una scuola che prepari davvero al futuro, grazie all’insegnamento
(poveri figli nostri) dell’inglese, di Internet e dell’impresa – le
tre “i” – dovrebbe essere considerato da tutti una sicura risorsa.
Qualcosa da pagare salato.
Dovrebbe.
Perché, naturalmente, gli eventuali acquirenti potrebbero rifletterci
su e concludere che quelle promesse sono un po’ troppo magniloquenti e
contraddittorie per essere credibili e l’affare non andrebbe più in porto.
Il che non significa, naturalmente che l’attuale capo dell’opposizione
sia, per mantenerci nell’ambito della “i” iniziale, soltanto un inane
imbonitore o un inguaribile impudico. Significa che è soprattutto
un ircocervo, nel senso di una bestia che non esiste.
E
non venitemi a dire che se non esiste non esiste neanche il pericolo di
trovarcelo a capo del governo. Così vorrebbe la logica, ma in fatto
di logica in Italia siamo sempre stati piuttosto deboli.
26.11.’00