Non so quanti di voi abbiano avuto modo
di partecipare, lo scorso sette dicembre alla “prima” della Scala (io,
per la cronaca, no) e non so, soprattutto, quanti siano disposti a sentirne
riparlare a dieci giorni di distanza. Ormai, il destino degli “eventi”
artistici e culturali, compresi quelli su cui più si scatenano i media,
è quello di svanire senza residui il mattino dopo, come i fantasmi del
sabba alle luci dell’alba. Ma state pure tranquilli: non intendo
tediarvi con ulteriori disquisizioni sulla maggiore o minore opportunità
di concludere la cabaletta del terzo atto del Trovatore con l’ormai celebre
do di petto. Non è questa la sede, non dispongo delle competenze
necessarie e il problema, comunque, non mi sembra interessantissimo.
La filologia musicale è una scienza giovane e non ha avuto il tempo
di elaborare una criteriologia sufficiente per sanzionare all’unanimità
i fatti interpretativi controversi. Se è vero che i pezzi vanno
eseguiti così come li ha scritti l’autore è altrettanto vero che la notazione
musicale non è sempre stata così rigida, tanto è vero che sulle partiture
più nobili si sono impiantate, con gli anni, delle tradizioni diverse.
I virtuosismi e gli abbellimenti dei cantanti, gli interventi e i
tagli dei direttori fanno parte a tutti gli effetti della storia del melodramma,
e gli autori sono sempre stati i primi a saperlo. Verdi, per quel
che ne sappiamo, non ha mai protestato per il do di petto del Trovatore
o per l’usanza, universalmente invalsa, di non cantare l’ultima battuta
della Traviata. Oltretutto, le polemiche che fatti del genere fanno
nascere fra i cultori della tradizione e i fautori della filologia infondono
un po’ di sana vitalità in un genere che, per un motivo o per l’altro,
corre sempre un po’ il rischio di lasciarsi imbalsamare. Per chi
ama il teatro lirico si tratta di fenomeni simpaticamente normali.
Un
po’ meno normale, comunque, dovrebbe essere considerato quello che è successo
alla Scala di Milano giovedì 7 dicembre. Perché che il maestro Muti
abbia diretto Il Trovatore senza il do di petto va bene, che i loggionisti
abbiano protestato strillando come aquile va ancora meglio (se no, che
gusto ci sarebbe stato?), ma che uno di costoro, tale Mauro Fuolega, anni
35, sia stato fermato e identificato da agenti di pubblica sicurezza in
servizio in sala mi sembra vada un po’ meno bene. Come non mi sembra
entusiasmante il fatto che il Questore di Milano, abbia dichiarato ai giornali
– almeno a quanto si legge sul “Corriere” di sabato 9 – che “se
uno spettatore disturba durante una recita è lecito procedere alla sua
identificazione”, aggiungendo che si è trattato di “una nostra iniziativa
a fini preventivi”, così, “in caso di esposto, di querela della Scala,
si sa già chi è.” E che non importa, come obietta l’intervistatrice,
che fischi e dissensi abbiano sempre avuto diritto di cittadinanza nei
teatri: “Sono un fatto anomalo: è legittimo identificare chi contesta”.
Ora,
so benissimo, per personale esperienza, che di quanto pubblicano i giornali
non ci si può mai fidare. Sono sicuro che il Questore di Milano non
ha mai rilasciato, in realtà, simili burbanzose dichiarazioni, perché,
da uomo intelligente quale non può non essere chi occupa la sua posizione,
sa bene che se si comincia con il considerare “un fatto anomalo” le manifestazioni
di dissenso in teatro, non si sa dove si va a finire. E sono altrettanto
sicuro che, alla giornalista che gli chiedeva se quel cittadino (incensurato,
tra parentesi) potesse correre dei rischi, non ha affatto risposto, come
gli fa dire il “Corriere”, “Non penso. Ma gli suggerirei di starsene
zitto, di non aggiungere altro. Altrimenti la faccenda potrebbe prendere
un’altra piega, passare nelle mani del magistrato. Non è una minaccia,
ma un consiglio”. Non dubito che avrà già provveduto a mandare,
personalmente o attraverso il suo ufficio stampa, un’ampia e dettagliata
smentita e se sul “Corriere” non l’ho vista è tutta colpa mia. Perché
consigliare a un cittadino di starsene zitto a scanso di guai, qualsiasi
cosa egli abbia fatto o detto, non è una bella cosa. In particolare,
non è cosa lecita in democrazia, o in un sistema che ambisca a essere considerato
tale. In democrazia chiunque può dire quello che vuole ed è compito
dei questori far sì che questo diritto sia tutelato.
Sì, d’accordo, tutto tutto non si può
dire. Non si può offendere gratuitamente qualcuno o negare una verità
manifesta. Ma nessuno – mi sembra – ha accusato di mendacio o di
vilipendio quello sfortunato melomane. E cosa ha fatto, in fondo?
Avrà disturbato la sacralità della prima scaligera, ma, francamente,
che volete che sia un “buu!” gridato dal loggione in confronto a un atto
di intimidazione manifesta?
Ahimè.
Un tempo i governanti, che non amavano, come non amano oggi, le critiche
e le contestazioni, specie se rivolte alla loro persona e alla loro opera,
erano ben lieti di permettere che il popolo oppresso si sfogasse come meglio
poteva fischiando sulla pubblica piazza i guitti e le cantatrici, chiedendo
la testa dei gladiatori sconfitti o maledicendo gli atleti dell’opposta
fazione. Naturalmente c’era sempre il rischio che le solite teste
calde approfittassero di tanta licenza: mi sembra di ricordare che ai tempi
del Risorgimento proprio le opere di Verdi venissero talvolta utilizzate
per esprimere sentimenti non del tutto amichevoli verso l’imperial regio
governo. Ricorderete anche voi la prima scena di Senso di Luchino
Visconti, in cui proprio la cabaletta della pira, non saprei dirvi se con
il do di petto o senza, offre l’occasione di una esplosione di sentimenti
antiaustriaci. Chissà: forse l’odierna severità delle autorità milanesi
nasce dal timore che la nostra società sia solcata da tensioni paragonabili
a quelle, e che da un “buu” a Muti il popolaccio possa passare con
troppa facilità a un “Abbasso il governo!”. E non ditemi che, visto
che siamo in democrazia, chiunque può gridare a suo piacimento “abbasso
il governo!”. Non lo saremo per sempre, anzi, sembra sempre più
probabile che non lo saremo a lungo. E alcuni pensano che sia buona
cosa essere preparati in anticipo.
17.12.’00