Confessioni di un inquinatore

La caccia | Trasmessa il: 01/16/2005



Questa mattina, ve lo confesso, sono venuto in radio in auto.  Non in violazione del blocco del traffico, naturalmente: godo di regolare deroga, in quanto giornalista in servizio, e soffro, per di più, di qualche problema di salute che in questa stagione mi preclude l’uso della bicicletta e mi renderebbe difficile quello dei mezzi pubblici, anche se sul percorso ne esistesse qualcuno.  Tuttavia, nelle precedenti giornate in cui quel blocco era stato disposto, fosse l’iniziativa dovuta a pericolose impennate della quantità di inquinanti nell’aria o, semplicemente, alla volontà di educare i cittadini alle gioie del trasporto collettivo, avevo sempre cercato di organizzarmi diversamente, di ingegnarmi meglio che potevo a fare a meno dei mezzi a motore, in ossequio al principio per cui, nelle emergenze collettive, ciascuno è tenuto a dare il suo contributo, per scarso che sia.   Ma questa volta, che volete che vi dica, non ce l’ho fatta.  Ho chiesto alla nostra efficientissima segretaria di redazione il prescritto pezzo di carta, ho messo nel portafoglio il tesserino dell’ordine ed eccomi qua.
Intendiamoci.  Non è stata, questa mia, un’abiura improvvisa.  Nelle sospensioni domenicali del traffico privato non ho mai avuto – come voi tutti, suppongo –  una grande fiducia.  Ho sempre saputo che si trattava di divieti dal valore affatto simbolico, che impedire di usare l’auto di domenica serve a ben poco, che il problema sta a monte, nella preponderanza del riscaldamento a gasolio e nell’insufficienza della rete autofilotranviaria, visto che Milano, con tutte le arie di grande città che si dà, in cinquanta anni, è riuscita a dotarsi di tre sole striminzitissime linee di metropolitana e comunque chi elegge un sindaco che ha voluto a ogni costo i poteri di commissario straordinario al traffico e li usa quasi solo per costruire dei nuovi parcheggi, per attirare, cioè, sempre più automobili in centro e pazienza se bisogna fare un’ecatombe di alberi, i suoi guai se li cerca e non gli resta che consolarsi, come faceva il “Corriere” ieri, con la constatazione che “il nostro concetto di salute” oggi è “diverso rispetto ai decenni scorsi” e, comunque, in città come Manila, Lima o New Delhi l’inquinamento è dieci volte maggiore.  Ma avevo sempre pensato che qualcosa è sempre meglio di niente e che anche da quelle discutibili iniziative un minimo di vantaggio per tutti se ne poteva, con un po’ di buona volontà, ricavare.
Oggi no.   Queste  sei ore di blocco festivo in due turni, studiate in modo di recare il minor danno possibile ai negozianti che tengono aperto per i saldi ed evidentemente decise da un’autorità riluttante a puro titolo di scarico di coscienza, non rappresentano soltanto l’ennesimo provvedimento farsa e non esprimono solo l’evidente intenzione di privilegiare gli interessi economici di pochi rispetto alla salute di tutti.  Sono, se mi concedete il termine, qualcosa di più della solita presa per i fondelli.  Il disagio senza contropartite che infliggono ai cittadini ha uno spiccato valore espiatorio, come se si trattasse di un sacrificio rituale offerto in cambio della autorizzazione a continuare a fare senza rimorsi ciò che si è sempre fatto.  Accettarle senza protestare, a questo punto, rasenta pericolosamente la complicità.
E non statemi a dire che approfittare dei propri privilegi di categoria per eludere un divieto, per quanto inutile e ingiustificato, non rappresenta esattamente una forma di protesta.    Lo so benissimo e, in effetti, se solo avessi potuto me ne sarei ben guardato anche stavolta.  Ma non ha neanche senso accettare una logica che tutto spinge a considerare ipocrita e nociva.   Chi obbedisce senza fiatare ai divieti cretini fa del male anche a te.  Digli di smettere.

16.01.’05