Conferme

La caccia | Trasmessa il: 05/21/2005



Se le elezioni di Catania si fossero svolte un mese fa, in concomitanza con le regionali, il loro esito non avrebbe fatto più chiasso, come dice il poeta, delle lacrime di un passero.  L’insediamento sociale e le tradizioni politiche di quella città sono quello che sono ed è comunque abbastanza ovvio che, a prescindere dai sondaggi, la legge elettorale vigente da al sindaco in carica un robusto vantaggio, specie quando gli si contrappone un personaggio che, per quante benemerenze civiche abbia acquisito in passato, non ha dimostrato, né come ministro né negli impegni politici successivi, un talento particolare.   E dato che il voto amministrativo può servire da indicatore delle tendenze politiche generali solo quando riguarda porzioni abbastanza ampie e differenziate del territorio, il centro sinistra avrebbe potuto accettare la conferma di Scapaccini sotto l’Etna con la stessa equanimità con cui aveva accolto quella del pio Formigoni qui in Lombardia.  In fondo si è trattato in entrambi i casi di una conferma “in discesa”, con un bel po’ di voti in meno rispetto alla volta prima.  Altra era (ed è) la tendenza su scala nazionale e su questo sarebbe stato giusto e opportuno riflettere e far riflettere.
        Macché.  Dopo il trionfo alle regionali, la conferma in Basilicata e quella in Trentino e in Sardegna, i capintesta dell’Unione, come si definiscono adesso, dovevano avere proprio una gran voglia di perdere.  Non si sarebbero precipitati, se no, ad accettare il punto di vista di chi vedeva nel voto a Catania la madre di tutte le battaglie e non avrebbero proiettato con tanta ingenuità su quel risultato le speranze di mandare subito a casa Berlusconi.   Avrebbero risposto alla sfida con un allegro “ma va’” e si sarebbero concentrati sul compito, piuttosto urgente, di dare a una coalizione malferma quel tanto di solidità necessario per tirare avanti.  Con il che Berlusconi, che ha vinto a Catania, ma ha perso in quasi tutto il resto di Italia, avrebbe dovuto fare i conti con quella sgradevole situazione.  Invece, adesso lo sciagurato è più vispo che mai e i principali commentatori, che fino a domenica non parlavano d’altro che delle trame intessute dall’infido Casini per fargli la festa, sono liberi di occuparsi con dovizia di particolari degli scambi di ceffoni tra Rutelli e Fassino, che, visto che nulla scoraggia l’elettorato quanto la percezione di una diffusa rissosità nella propria coalizione di riferimento, è un modo ingegnoso di spostarsi di campo senza prendersi neanche il disturbo di dichiararlo.
        Forse, però, non è il caso di attribuire in toto questo capovolgimento percettivo all’eterna vocazione a farsi del male che caratterizza le forze progressiste del paese, se vogliamo continuare a chiamarle così.  Il fatto è che, negli ultimi dieci anni, le regole del gioco politico, i meccanismi di formazione e di registrazione del consenso, si sono trasformati parecchio.  La contrapposizione tra proporzionale e maggioritario che ha segnato la crisi del sistema democristiano ormai è preistoria.  I voti, in qualsiasi modo li si conti, interessano sempre meno.  Il potere nasce altrove, dalla quantità di esposizione televisiva (e giornalistica) che ciascuno può accaparrarsi, dalla frequenza delle sue apparizioni, dalla sua capacità di farsi personaggio e notizia.  Berlusconi, nelle sue continue geremiadi sulla televisione che non gli vuol bene, sarà forse un po’ paranoico e sicuramente è assai spudorato, ma dà prova di sano realismo.  Non si lamenta perché l’elettorato lo abbandona, ma perché la televisione – a suo dire – non gli dà abbastanza spazio, come se fosse convinto (probabilmente lo è) che questo sia il problema base.  Dell’elettorato deve avere la stessa idea che Napoleone, si licet, aveva delle salmerie: presto o tardi, dandogli il tempo, arrivano anche loro, ma il vero stratega deve occuparsi di altro.  È una lezione, questa, che qualcuno ha imparato anche nel campo avverso, per esempio il buon Bertinotti, che non a caso vede crescere la propria influenza e il proprio peso politico anche se il suo partito, dal punto di vista dei voti, un po’ arranca.
        Si tratta, in ultima analisi, di una variante contemporanea del vecchio assioma per cui la notizia conta più del fatto, anzi di solito lo determina.  E nella logica delle notizie, si sa, quella che conta è l’ultima: la penultima, be’, la penultima è roba di ieri, giornalisticamente irrilevante, di scarso o nullo appeal comunicazionale, buona al massimo per incartarci le verdure al mercato.  Anzi, visto che le notizie, come è noto, su carta non circolano più, non serve neanche per quello.
        Insomma,  il voto di Catania non ha rappresentato soltanto la conferma di un sindaco e di una maggioranza (fatto in sé lecito e non disdicevole, soprattutto se si considera l’alternativa che a quei poveri elettori veniva proposta).  È stata anche la conferma di quanto sia clamorosamente truccato il gioco politico cui siamo chiamati a partecipare.  Peccato soltanto che di una conferma del genere non avessimo davvero bisogno.

21.05.’06