Come reagire ai calci nel sedere

La caccia | Trasmessa il: 01/13/2008


    Credo che fosse di Talleyrand che si diceva che avesse un tale controllo di sé che se qualcuno gli avesse sferrato all'improvviso un calcio nel sedere non avrebbe battuto ciglio, né mosso un lineamento del volto. Si trattava, naturalmente, di un exemplum fictum, o, come direbbe un grammatico della vecchia scuola, di una ipotesi di terzo tipo, perché quel personaggio fu sempre troppo addentro agli ambienti del potere perché qualcuno si azzardasse a muovergli un simile attacco, ma l'immagine rende abbastanza l'idea. L'ex vescovo di Autun fu, per tutta la vita, eminentemente un diplomatico e in diplomazia, allora, una certa abilità nel non far trasparire i propri sentimenti poteva giovare, specialmente se si era costretti dalla durezza dei tempi a servire prima la Rivoluzione, poi l'Impero e infine i Borboni. D'altronde, la capacità di restare impassibili anche nelle circostanze sgradevoli e impreviste, di resistere a testa alta agli oltraggi e alle offese della sorte avversa (una categoria in cui si possono far ragionevolmente rientrare anche i calci nel sedere, improvvisi o previsti) era considerata una componente della grandezza di animo già ai tempi degli Stoici. Siamo noi figli del Romanticismo, educati – almeno in teoria – al culto della spontaneità e della sincerità, che parliamo con disprezzo, in questi casi, di dissimulazione o “faccia di bronzo”, trasformando ciò che era visto come una espressione di forza spirituale in una banale ostentazione di esteriorità fisica. È anche vero che oggi nessuno fa il minimo sforzo per nascondere alcunché, per cui certe sfumature non possono che andare perdute.
    Qualcuno, tuttavia, ci prova. Guardate Veltroni, per esempio. Non sarà un Talleyrand, pur se si è concesso anche lui le sue giravolte, ma qualche sfoggio di imperturbabilità riesce, a volte, a concedersi. L'altro giorno, per esempio, convocato di fronte al papa per il tradizionale scambio di auguri dei primi dell'anno (una cerimonia, va detto, della quale io, se fossi il sindaco di Roma, non proverei un particolare bisogno), se ne è sentito dire di ogni. Il papa gli ha rinfacciato a brutto muso i gravi problemi di sicurezza della capitale, ha sottolineato la presenza di aree degradate, si è diffuso sulla necessità di assicurare a tutti almeno il minimo indispensabile per una vita dignitosa, ha deprecato l'inadeguatezza di salari e pensioni, l'alto livello della disoccupazione, l'insostenibilità dei prezzi degli alloggi, l'aggravarsi dell'emergenza educativa e sanitaria. Insomma, se non fosse stato per l'appello finale a non penalizzare gli ospedali cattolici nella distribuzione delle risorse, per l'accenno agli “attacchi insistenti e minacciosi alla famiglia” e il relativo monito alle amministrazioni perché “non assecondino simili tendenze”, il poveraccio avrebbe potuto credere di essere finito, invece che in Vaticano, nella sede di un Centro Sociale particolarmente pugnace: in un posto, comunque, dove i calci nel sedere fioccavano in misura inusitata persino per lui. Eppure è riuscito a mantenere, in quella circostanza imbarazzante, una certa ostinata imperturbabilità, come fa fede il suo comunicato di commento, con l'invito a “non strumentalizzare” le parole del Pontefice, invito che l'interessato, il giorno dopo, si è degnato di rilanciare, tanto quello che doveva dire lo ha detto, i soldi che doveva chiedere li ha chiesti e le assicurazioni in merito che si aspettava, probabilmente, le ha avute.
    È stato, in un certo senso, un bell'esempio di autocontrollo. Ma solo in un certo senso, naturalmente, perché difficilmente il buon Walter, con tutte le manifestazioni di ossequio alla Curia romana cui si è lasciato andare in passato, fino alla recente rinuncia al registro delle unioni civili, avrebbe potuto rispondere per le rime, mandando il papa a quel paese, o ricordandogli, almeno, la distinzione dei rispettivi campi di competenza. E non certo per una questione di correttezza diplomatica: il fatto è che a quella possibilità i veltroni di questo mondo hanno espressamente rinunciato per scelta e non gli sarebbe possibile riesumarla senza entrare in manifesta contraddizione con se stessi. Chi pecora si fa, notoriamente, il lupo se lo mangia e chi si presenta al Sommo Romano Pontefice con le terga scoperte, non può che aspettarsi che Sua Santità si infili gli scarponi chiodati. L'impassibilità, a questo punto, smette di essere una virtù e diventa una necessità dolorosa. Talleyrand, che di papi aveva una certa esperienza, non ci sarebbe cascato mai.