Come chiudere l’ottonario

La caccia | Trasmessa il: 10/14/2007


    Quando, nel 1953, apparve sugli schermi italiani Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini, molti critici seri lo considerarono “una pugnalata nella schiena” al neorealismo, nel senso che riprendeva stilemi e figurazioni di quella stagione artistica per metterli al servizio di un’etica narrativa esplicitamente disimpegnata, di un prodotto di pura evasione, che ambientava tra i proletari rurali di un paesino appenninico un classico gioco delle parti che neanche ai tempi dei telefoni bianchi. Il che sarà stato vero, naturalmente, ma il successo dell’opera, che, prodotta con mezzi abbastanza modesti, incassò in pochi mesi la bellezza di un miliardo e mezzo di lire di allora, dimostrò che appunto di disimpegno ed evasione il pubblico del ‘53 sentiva il bisogno. La bravura di De Sica, la bellezza della Lollobrigida, le straordinarie doti comiche di Tina Pica e di Memmo Carotenuto, per non dire, naturalmente, della regia di Comencini e della sceneggiatura di Ettore Margadonna, avevano concorso a creare un prodotto in cui gli italiani di allora potevano e volevano riconoscersi. Anche il titolo in sé, quell’ottonario così cantabile e così facile da memorizzare, che riuniva tre termini, tutto sommato, eterogenei, ma proprio per questo suggestivi nella loro coordinazione, deve avere contribuito non poco al trionfo popolare di quella per altro esilissima storia. I difensori del neorealismo non avevano capito che a otto anni dalla fine della guerra, di pane e di amore si aveva ancora un gran bisogno e che per molti, purtroppo, l’unico mezzo per goderne in qualche modo restava la fantasia.
    Naturalmente, quando di qualcosa c’è scarsità si è sempre un po’ gelosi di chi liberamente ne dispone, per cui l’anno successivo lo stesso cast si ripresentò al gran completo sotto un’insegna in cui, per chiudere l’ottonario, al pane e all’amore si aggiungeva la gelosia. Fu un altro grande successo, ma certe cose non possono durare in eterno e quando, nel 1955, Dino Risi si lasciò tentare a riprendere la serie, previo il trasferimento dell’unità di luogo a Sorrento e la sostituzione della Lollo con Sofia Loren, la sua grande rivale di allora, i risultati furono meno gratificanti. E al mezzo insuccesso di quel terzo episodio poté contribuire il fatto che, essendo la Loren considerata, all’epoca, soprattutto una icona del sesso, si decise di sostituire, nel titolo, il terzo elemento con una sorta di maliziosa aposiopesi, facendo seguire al pane e all’amore soltanto tre allusivi puntini. Quel Pane, amore e basta sembrò, in qualche modo, incompleto e non bastava a completarlo nemmeno il riferimento implicito a quanto, nell’immaginario maschile dell’epoca, la protagonista era delegata a elargire. Tanto è vero che per il quarto film della serie, nel 1958, si tornò all’ottonario completo e alla rima innocente, ma ormai era un po’ troppo tardi e quell’ultimo Pane, amore e Andalusia, diretto, in coproduzione italo spagnola, da Javier Setò, era destinato a non lasciare traccia né al botteghino né nella storia del cinema nazionale e di quello iberico.
    Ahimè. È passato quasi mezzo secolo. Di pane in Italia ce ne è certo più abbondanza di allora, i costumi sessuali, se non le pratiche amorose, sono cambiati alquanto, nei paesi dell’Appennino sorgono in gran copia gli agriturismo e i marescialli dei carabinieri fanno carriera in televisione, eppure qualcuno si ricorda ancora di quegli ingenui ottonari. Se ne ricorda e cerca di specularci sopra. Proprio in questi giorni, grandi manifesti sulle mura cittadine e vistose inserzioni a piena pagina sui giornali ripropongono un’altra variante del vecchio titolo. Uscita di scena la Lollo, assurta la Loren all’Olimpo dei numi indigeti, tocca a un’anonima crocerossina in camice immacolato e bustina regolamentare sui capelli bruni a frangetta prometterci, tra tutto il promettibile, pane, amore e sanità. Una versione tronca e un po’ sconcertante, scelta dal competente ministero per celebrare i trent’anni del servizio sanitario nazionale, che, a quanto pare, sostituì nel 1977 il vecchio sistema delle mutue. Una postilla in caratteri minuti, quasi invisibile, ci assicura che da allora nel paese gira più salute per tutti.
    È strano, però. Il servizio sanitario nazionale in Italia ha i suoi problemi, ma non dovrebbe aver bisogno di pubblicità. È una delle poche strutture pubbliche che funzionano abbastanza bene e lasciatelo pure dire a me, che, per motivi indipendenti dalla mia volontà, ho avuto occasione di approfittarne più spesso di quanto avrei desiderato. E poi, suvvia, lo sappiamo tutti che le sue fondamenta finanziarie scricchiolano pericolosamente. Non c’è anno in cui la necessità conclamata di tagliare la spesa pubblica non imponga l’introduzione di un ticket, la riduzione dello spettro dei medicinali elargiti, l’eliminazione di questa o di quella prestazione. Che qualcuno, in sede ministeriale, abbia deciso di utilizzare delle risorse preziose per finanziare una campagna celebrativa è un dato, ne converrete, piuttosto curioso. È come se, di fronte all’avanzare incontenibile della concorrenza, al crescere delle lusinghe dell’offerta privata, che si fonda soprattutto sulle sovvenzioni, ma ai cittadini sembra sempre funzionare meglio e più in fretta, la Livia Turco, o chi per lei, abbia deciso di ribattere a forza di immagini e slogan.
    Da un certo punto di vista, in realtà, verrebbe quasi voglia di dargli ragione. In fondo, il fatto che, per una volta, in assoluta controtendenza, si sottolinei la positività del servizio pubblico non può fare che bene. Di lodi del privato e di esortazioni a privatizzare ne leggiamo abbastanza nei fondi del “Corriere della sera” e nel programma dei Veltroni. D’altra parte, però… D’altra parte non è che il tentativo di rifarsi alla remota felicità di quei titoli sia proprio così convincente. Cosa vuol dire, in sostanza, pane amore e sanità? “Sanità” non è un sinonimo di “salute”: nell’uso contemporaneo, anzi, il termine indica l’insieme delle strutture e dei presidi cui è opportuno ricorrere in caso di malattia. La sanità è un male necessario, è qualcosa di strettamente collegato allo stato di chi sano non è e quell’ottonario, a pensarci, potrebbe rinviare a un alquanto contraddittorio “pane, amore e malattia”, che nessuno userebbe mai come titolo di un film né come slogan pubblicitario, anche se conserva la rima originale dei suoi modelli.
    Quell’infermiera sorridente, insomma, ha la funzione di dare un’immagine piacevole, ancorché mendace, di una cosa che piacevole, nell’esperienza comune, proprio non è. Nessuno, naturalmente, cerca la bellezza (o – quanto a questo – il pane e l’amore) negli ospedali, pubblici o privati. A tutti basterebbe trovarci un poco di competenza, un poco di professionalità e dei mezzi tecnici adeguati e se le infermiere, poi, si scopriranno un po’ arcigne, pazienza. Presentare il servizio sanitario come una specie di gioco leggiadro introdotto dall’immagine di una bella ragazza è, naturalmente, una banalità, ma una banalità, a pensarci, quasi offensiva per chi, all’interno di quella struttura, conduce la sua quotidiana battaglia contro la malattia. Certo, nella grande contrapposizione mediatica tra essere e apparire, non c’è posto per sensibilità del genere, ma ammetterete che certe volte viene proprio voglia di mandarli tutti a quel paese. Tra l’altro, l’invito, nella sua forma più volgare e diffusa, entrerebbe giusto giusto nell’ottonario.