Colpe

La caccia | Trasmessa il: 01/17/1999



Gli ascoltatori di una certa età, quelli – diciamo – che hanno avuto la ventura di essere giovani nei favolosi anni ’60, ricorderanno senz’altro quella canzone dei Rokes, uno dei gruppi musicali di moda allora, in cui gli interpreti, dopo aver osservato che la notte cadeva su di loro, che la pioggia cadeva su di loro, che la gente non sorrideva più e che un mondo ormai vecchio gli stava crollando inesorabilmente addosso, si chiedevano che colpa ne avessero loro.  Parlavano, naturalmente, in nome del loro referente ideologico, i giovani ribelli, i contestatori (i “capelloni”, si diceva allora), per respingere, non senza qualche buona ragione, ogni tentativo di attribuir loro la responsabilità del disagio culturale e sociale che, anche in quei tempi felici, si cominciava a percepire.  In fondo, le responsabilità di ogni forma di disagio sociale vanno attribuite, in primo luogo, a chi è responsabile a pieno titolo della gestione della società in cui quel disagio si manifesta.  I giovani, ribelli o no, sono gli ultimi arrivati e gli ultimi arrivati, per forza di cose, dalla gestione concreta delle pubbliche faccende sono sempre lontani e di colpe per il loro cattivo funzionamento ne hanno, di conseguenza, pochine.
        Non saprei dirvi se e quanto questo aureo principio sia oggi entrato a far parte in via definitiva del nostro patrimonio culturale.  Ma nessuno potrà negare che quella canzone, negli anni successivi, abbia avuto successo.  Il suo ritornello è stato ripetuto tante di quelle volte da giustificare l’eventuale proposta di chi volesse elevare “Che colpa abbiamo noi?” al rango di inno nazionale della Prima e della Seconda Repubblica insieme.
        Esempi non ne mancano, ma stiamo pure a quelli più recenti.   La settimana testé trascorsa si è aperta, come ricorderete, con l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario.  Io, personalmente, non ho mai capito in che cosa un anno giudiziario differisca da un anno normale né che bisogno abbia di essere inaugurato, che significa, nel concreto, costringere un certo numero di degne persone, compresi i responsabili dell’ordine pubblico, ad abbandonare le loro importanti incombenze per andare ad ascoltare gli sproloqui di qualche alto magistrato, con gioia – suppongo – degli operatori della delinquenza, liberi, per quel giorno, di agire senza freni, essendo tutti i funzionari addetti alla difesa dell’ordine pubblico impegnati in palazzo di Giustizia a celebrare se stessi.  E neanche sono riuscito a capire perché, se l’anno giudiziario proprio deve essere inaugurato con un discorso, il compito di farlo debba essere affidato al Procuratore Generale, cioè al massimo rappresentante dell’accusa in ogni distretto, e non a qualche esponente del ruolo giudicante, come se il compito principale dell’apparato giudiziario nel suo complesso fosse quello di accusare e non quello di giudicare gli accusati con la massima equanimità.   Ma non è questo, naturalmente, il punto su ci volevo richiamare la vostra attenzione: il punto è che tutti i Procuratori intervenuti, da quello presso la Corte di Cassazione in giù, si sono affannati soprattutto a spiegare che, del crescere del livello di criminalità, del venir meno della pubblica sicurezza, dell’imbarbarimento delle condizioni di vita metropolitane di cui tanto in questi giorni si parla, loro, i magistrati, non hanno colpa.  Fanno del loro meglio, certo, ma i loro sforzi sono puntualmente frustrati da chi si ostina a proporre una legislazione assurdamente lassista, che profonde ogni genere di garanzie per i malfattori e ostacola le indagini e le possibilità d’intervento dei bravi giudici.
        E non è finita.  Mentre a Milano, sull’onda dei noti fatti di cronaca, crescevano giorno dopo giorno, le polemiche sul livello della criminalità (che statisticamente, si sa, è piuttosto basso, ma che chiunque, manipolando un po’ i numeri per i suoi tristi fini, può far apparire elevato quanto gli pare) le attribuzioni di colpa agli altri continuavano con un fervore veramente straordinario.  Un alto esponente della Procura milanese ha denunciato con vigore l’inettitudine della polizia, i cui funzionari, diversamente da un tempo, non conoscono più la realtà sociale in cui si muovono.  Un suo collega ha giustificato i suoi pari con la scarsità, nel campo della criminalità da strada, di pentiti in grado di indirizzare adeguatamente le indagini (perché, si sa, i giudici senza l’imboccata dei delatori non possono fare niente). I poliziotti e i carabinieri hanno obiettato che, con i pochi mezzi e la scarsità di uomini di cui dispongono, non possono fare più che tanto.  I politici hanno fatto garbatamente capire che le leggi vanno benissimo e i mezzi ci sono, ma se gli inquirenti perdono il loro tempo a indagare sulle persone dabbene (i politici, per esempio), i malfattori non possono che giovarsene. Il pavone Albertini ha spiegato e rispiegato che se avesse lui tutti i poteri il problema si risolverebbe in un fiat, ma così come stanno le cose, da semplice sindaco, non ci può fare proprio niente.  Eccetera.
        Nel complesso, uno spettacolo deprimente.   Anche perché lo scaricabarile non è un giochetto innocuo con cui si possa andar avanti all’infinito.  A un certo punto, ahimè, qualche soggetto debole su cui far ricadere le responsabilità senza che lui sia in grado di ritorcerle su qualcun altro si finisce sempre con il trovarlo.   E allora sì che sono cavoli amari.   È da una pratica del genere che sono nati tutti i razzismi, tutte le cacce alle streghe che hanno funestato il nostro secolo.
        In effetti, i bravi milanesi hanno dimostrato la massima disponibilità ad ascoltare gli impliciti suggerimenti della loro classe dirigente.  Non è stato un caso se la responsabilità, anzi, la colpa di quanto è successo è stata delegata all'unanimità su qualcun altro.  Se, invece di interrogarsi sulla logica con cui, in questi anni, si è giunti a vivere in una società urbana così insicura, in un equilibrio sociale e culturale così fragile, si è preferito scaricare tutto sugli “altri” per eccellenza.  Condannare gli altri, da sempre, è il modo più sicuro per assolvere se stessi.
E così, per quanto scarsi o nulli possano essere i rapporti tra i fatti di sangue di questi giorni e il mondo degli immigrati, per quanto tutta la nostra storia recente ci insegni come il nostro paese non abbia alcun bisogno di importare la criminalità organizzata dal di fuori, perché quanto a mafie ce la caviamo benissimo in proprio, l’opinione pubblica, così autorevolmente guidata, ha deciso che la colpa è tutta degli stranieri che vivono in mezzo a noi.  Il sindaco ha già trovato la ricetta infallibile, proponendosi (anzi, proponendo a qualcun altro, perché lui, si sa, non può farci nulla) l’obiettivo, tipicamente manageriale, di un tot di espulsioni al giorno: cento, duecento, chissà.  I cittadini sono d’accordo.   La stampa, secondo l’uso, collabora: se deve riferire della rissa, per motivi di interesse, tra due milanesi un po’ bevuti e assolutamente non immigrati, che si sono presi a coltellate – per fortuna senza esiti gravi – in un bar di via Rosmini, parlerà di “accoltellamento a Chinatown” e sottolineerà, non potendo sottolineare nient’altro, che il proprietario del locale in cui è avvenuto l’episodio, guarda un po’, è di origine cinese, mentre uno dei testimoni presenti al fatto è addirittura albanese.  Che i rapinatori che, in altri luoghi, hanno sparato e ucciso fossero ostensibilmente dei nostri connazionali non è una ovvietà da dare per scontata, ma una precisazione da ribadire (vergognandosene, spero) in sede di cronaca.
        Tutto questo suonerà forse un po’ ovvio, ma è proprio questa ovvietà che lo rende più grave di quanto appaia a prima vista.  Perché quando a cercare capri espiatori, ad attribuire responsabilità e ad accusare qualcun altro di non fare quanto si deve fare sono le forze di opposizione, in fondo, non è un gran male: le opposizioni fanno il loro mestiere e se, per esercitarlo, sentono il bisogno di fare appello ai sentimenti più bassi del loro elettorato, evidentemente, non ne possono fare a meno.  Non si possono raddrizzare le gambe ai cani e ciascuno si gioca le carte che ha.   Ma il guaio è che chi all’opposizione non è, chi ha concrete responsabilità di governo (ed evidentemente desidera spogliarsene), non ha fatto niente di diverso.   I rappresentanti dell’esecutivo, da D’Alema in giù, hanno ribattuto che certe cose non si dicono, ma, nel concreto, hanno dato un bel giro di vite, adottando buona parte dei provvedimenti repressivi che gli sono stati chiesti.  Poi, naturalmente, si sono sentiti rispondere che non basta, ma così imparano.
        Di razzisti, si sa, ce ne sono in giro  tanti, anche se noi italiani siamo sempre stati piuttosto disposti ad assolverci da qualsiasi accusa in merito.  Ma forse il problema non è quello del razzismo in senso stretto.   È quello dell’arroganza, dell’incapacità di ammettere che il mondo in cui viviamo è sempre quello che ci siamo costruiti noi.   Gli altri, quelli che vengono da fuori, non saranno tutti dei santi, figuriamoci, avranno le loro magagne e i loro problemi, ovviamente, ma – nel complesso – che colpa volete che abbiano?   A me, vi confesso, certe volte, quando li vedo mendicare le briciole della nostra ricchezza, viene persino voglia di chiedergli scusa.

17.01.’99