Colpa ed esecrazione

La caccia | Trasmessa il: 12/21/2003



Alzi la mano chi, alla notizia della cattura di Saddam Hussein, domenica scorsa, non ha provato un fuggevole, deprecabilissimo moto di disappunto.  Non per simpatia verso il deposto tiranno, naturalmente (pochi leader mondiali sono riusciti a essere, negli anni, meno simpatici), né per qualche sia pur remota affinità ideologica con lui, non risultando il suo regime, nonostante le ormai lontane origini baathiste, improntato a ideologia alcuna.  Ma in questi mesi di incerto dopoguerra ci hanno ripetuto tante volte che era lui l’ostacolo principale da eliminare perché tutto filasse liscio, che da lui dipendeva, in ultima analisi, qualsiasi resistenza all’occupazione, che tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, ritengono che la presenza militare dei vincitori (e dei loro reggicoda) in Iraq rappresenti un grave vulnus alla pace e alla legalità internazionale si sono lasciati tentare.  Molto hanno contribuito, da questo punto di vista, le argomentazioni di quanti, Berlusconi in testa, hanno voluto spiegarci che l’avvenuta cattura dimostra quanto sia stata giusta, all’epoca, la decisione di scendere in guerra, che significa spingere l’argomento pragmatico davvero un po’ troppo oltre, e le dichiarazioni, non so quanto incaute, di chi, mentre è ancora incerta persino la posizione giuridica del prigioniero, ha già deciso, non solo di processarlo, ma a che pena condannarlo e persino in che data eseguirla.
        Naturalmente è difficile, se ci si pensa appena un po’, considerare Saddam, che, probabilmente si merita ad abundantiam quello che gli capiterà, il capo di una resistenza popolare o il fulcro di una rinascita democratica.  Vederlo in quei termini significherebbe, paradossalmente, credere alla propaganda dei vincitori, che dipingono la resistenza all’occupazione come il colpo di coda di un regime sanguinario.  Ma l’esecrazione del tiranno, per quanto di effetto sul piano retorico, non è mai servita a nulla, né politicamente né storicamente.  I tiranni e i loro regimi, per quanto inumani, non si spiegano mai soltanto nei termini della loro intrinseca malvagità: nascono e si affermano perché rispondono a interessi collettivi nazionali e internazionali ed è su questi che bisogna indagare, se si vuol rendere veramente giustizia alle loro vittime.  Il che significa, ahimè, che i vincitori di oggi sono gli ultimi a poter pretendere di processare Saddam Hussein, perché sono stati loro, a suo tempo, a metterlo dov’era, a rafforzarne la posizione e, in definitiva, a dargli quel potere di cui avrebbe, in seguito, fatto tanto cattivo uso.  Visto sotto questa luce, il dittatore irakeno non appare più come un leader popolare o uno statista, per quanto malvagio: si riduce alle dimensioni di un Idi Amin, di un Bokassa o di un Ciombé, di uno dei tanti dittatori del terzo mondo che l’Occidente ha via via creato perché servissero i suoi interessi in loco, per poi sbarazzarsene quando diventavano impresentabili.  La sua condanna è già scritta, non tanto negli esiti di un processo che nulla ci autorizza a prevedere equo o imparziale (i processi di quel tipo non lo sono mai), quanto nel ruolo storico che gli compete.  A personaggi come lui, in nome della Realpolitik, di solito si perdonano tutte le colpe tranne una: quella di sapere troppe cose.
 
21.12.’03