Alzi la mano chi, alla notizia della
cattura di Saddam Hussein, domenica scorsa, non ha provato un fuggevole,
deprecabilissimo moto di disappunto. Non per simpatia verso il deposto
tiranno, naturalmente (pochi leader mondiali sono riusciti a essere, negli
anni, meno simpatici), né per qualche sia pur remota affinità ideologica
con lui, non risultando il suo regime, nonostante le ormai lontane origini
baathiste, improntato a ideologia alcuna. Ma in questi mesi di incerto
dopoguerra ci hanno ripetuto tante volte che era lui l’ostacolo principale
da eliminare perché tutto filasse liscio, che da lui dipendeva, in ultima
analisi, qualsiasi resistenza all’occupazione, che tutti coloro che, per
un motivo o per l’altro, ritengono che la presenza militare dei vincitori
(e dei loro reggicoda) in Iraq rappresenti un grave vulnus alla pace e
alla legalità internazionale si sono lasciati tentare. Molto hanno
contribuito, da questo punto di vista, le argomentazioni di quanti, Berlusconi
in testa, hanno voluto spiegarci che l’avvenuta cattura dimostra quanto
sia stata giusta, all’epoca, la decisione di scendere in guerra, che significa
spingere l’argomento pragmatico davvero un po’ troppo oltre, e le dichiarazioni,
non so quanto incaute, di chi, mentre è ancora incerta persino la posizione
giuridica del prigioniero, ha già deciso, non solo di processarlo, ma a
che pena condannarlo e persino in che data eseguirla.
Naturalmente
è difficile, se ci si pensa appena un po’, considerare Saddam, che, probabilmente
si merita ad abundantiam quello che gli capiterà, il capo di una resistenza
popolare o il fulcro di una rinascita democratica. Vederlo in quei
termini significherebbe, paradossalmente, credere alla propaganda dei vincitori,
che dipingono la resistenza all’occupazione come il colpo di coda di un
regime sanguinario. Ma l’esecrazione del tiranno, per quanto di
effetto sul piano retorico, non è mai servita a nulla, né politicamente
né storicamente. I tiranni e i loro regimi, per quanto inumani, non
si spiegano mai soltanto nei termini della loro intrinseca malvagità: nascono
e si affermano perché rispondono a interessi collettivi nazionali e internazionali
ed è su questi che bisogna indagare, se si vuol rendere veramente giustizia
alle loro vittime. Il che significa, ahimè, che i vincitori di oggi
sono gli ultimi a poter pretendere di processare Saddam Hussein, perché
sono stati loro, a suo tempo, a metterlo dov’era, a rafforzarne la posizione
e, in definitiva, a dargli quel potere di cui avrebbe, in seguito, fatto
tanto cattivo uso. Visto sotto questa luce, il dittatore irakeno
non appare più come un leader popolare o uno statista, per quanto malvagio:
si riduce alle dimensioni di un Idi Amin, di un Bokassa o di un Ciombé,
di uno dei tanti dittatori del terzo mondo che l’Occidente ha via via
creato perché servissero i suoi interessi in loco, per poi sbarazzarsene
quando diventavano impresentabili. La sua condanna è già scritta,
non tanto negli esiti di un processo che nulla ci autorizza a prevedere
equo o imparziale (i processi di quel tipo non lo sono mai), quanto nel
ruolo storico che gli compete. A personaggi come lui, in nome della
Realpolitik, di solito si perdonano tutte le colpe tranne una: quella di
sapere troppe cose.
21.12.’03