Coazioni telefoniche

La caccia | Trasmessa il: 06/16/2007


    Di un aspirante candidato alla presidenza degli Stati Uniti si diceva, anni fa, che in presenza delle belle signore non fosse capace di tener chiusa la cerniera dei pantaloni. Di fatto, lo beccarono – in piena campagna per le primarie – che trasgrediva ostensibilmente all’obbligo della fedeltà coniugale e la cosa segnò la fine delle sue ambizioni e di tutta la sua carriera. Peccato, forse, perché ho sempre pensato che, zip a parte, avrebbe potuto essere un presidente migliore di quelli che i suoi concittadini avrebbero mandato, allora e in seguito, alla Casa Bianca.
    Dei dirigenti attuali dei DS si potrebbe dire, analogamente, che sono del tutto incapaci di tenere la bocca chiusa in prossimità di un telefono. Sanno benissimo di essere sottoposti, per l’intero arco delle ventiquattro ore, alla sorveglianza di squadre intere di spioni pubblici e privati, non ignorano che gran parte delle relative intercettazioni sono affidate alla Guardia di Finanza, un corpo che non ha particolari motivi di benevolenza verso il loro partito, hanno già sperimentato l’ingratitudine dei magistrati, che preferiscono notoriamente i buoni rapporti con la stampa a quelli con la forza politica che per decenni li ha così strenuamente difesi, ci si sono già scottati due o tre volte nel recente passato, ma niente. Il richiamo di quell’apparecchio è irresistibile e ogni volta che gli se ne dà l’occasione, alzano la cornetta e si mettono a chiacchierare. Alla consuetudine non deve essere estraneo il fatto che, in Italia, nessuno chiede mai le dimissioni di nessun altro e che per chi ci sta le prospettive di essere allontanato dal potere, qualsiasi cosa dica, sono infinitesimali, ma ammetterete comunque che questa incoercibile tendenza all’indiscrezione telefonica merita di essere valutata con particolare attenzione.
    Non che dicano poi quel granché, poveri nani. Se prendiamo in esame l’ultima sfornata di intercettazioni, dilagata all’inizio della settimana da un ufficio del Tribunale di Milano su tutta la stampa nazionale, vedremo che appunto di chiacchiere, e solo di chiacchiere, sempre si tratta. D’Alema cerca di fare lo spiritoso – una cosa che gli è sempre riuscita malissimo – riprendendo termini propri delle tifoserie sportive e raccomandando agli altri la prudenza che lui per primo trascura. Fassino, senza attingere alle vette del suo ormai leggendario “Abbiamo una banca?”, si limita a informarsi sullo stato delle trattative, garantisce che lui, stavolta, sarà abbottonatissimo e fa capire, parlando al telefono, che su certi argomenti è meglio discettare di persona. Latorre, oltre a intrattenersi cordialmente con il compagno Ricucci, osserva, a un certo punto, che Fassino non capisce un tubo e difficilmente il rimarco avrà stupito il suo interlocutore e il funzionario addetto all’ascolto. E così via.
    Niente di grave, dunque: niente di penalmente rilevante o di politicamente deplorevole. È chiaro che i ragazzi sono al corrente dei vari tentativi di scalata bancaria in atto e che approvano di tutto cuore almeno quello di Unipol su Bnl, ma questo, più o meno, lo si sapeva già e con un poco di buona volontà lo si può anche giustificare. Nessuno crede più a certi vecchi aforismi brechtiani sulla maggiore o minore criminosità del fondare o dello svaligiare una banca e non si vede davvero perché il movimento cooperativo dovesse rinunciare a priori all’idea di un istituto di credito tutto suo. Certo, gente come Consorte poteva prendere, nel perseguire quel legittimo obiettivo, delle vie un poco tortuose, ma nessuno dei suoi interlocutori politico-telefonici lo incoraggia in tal senso o gli promette, dio non voglia, degli appoggi sotto banco. D’altronde, a quell’epoca i DS erano all’opposizione e anche volendo non avrebbero potuto appoggiare un granché.
    Eppure, da quelle chiacchiere innocue promana, direi quasi sensibilmente, una specie di tanfetto fastidioso, un che di disdicevole sul piano morale. Le parole saranno anche giuste, ma è il tono, per così dire, che non funziona. È evidente che quegli importanti uomini di partito parlano in quel modo, passando giulivi da un’allusione a un ammiccamento, soprattutto perché la situazione gli piace: perché sono contenti di intrattenersi così, da pari a pari, con il Ricucci, il Consorte o il qualsivoglia altro furbetto di turno. Il mondo della finanza, anche di quella finanza precaria e strapelatissima, li affascina: trovano l’idea di dire la loro sull’offerta degli spagnoli, sulla necessità di raccogliere qualche centinaio di milioni di euro, sugli inevitabili do ut des di questo tipo di transazioni, molto più interessante di quanto non sia lo svolgimento dei loro compiti istituzionali. I grandi leader, dal loro punto di vista, sono evidentemente quelli che muovono le grandi banche e i grandi capitali: il compito banale di rappresentare i propri elettori, di farsi un’idea dei loro interessi quotidiani, delle loro concrete difficoltà e necessità lo si può lasciare benissimo ai peones della politica. Con la quale, d’altronde, si cominciano pericolosamente a perdere i contatti: non per niente si danno tutti i giochi per scontati e alla notizia che uno dei loro finanzieri di riferimento quella sera andrà a cena con Berlusconi ci si chiede ilari chi glielo fa fare a quello di assidersi al desco di uno che perderà le elezioni. Creando così, senza neanche rendersene conto, la situazione perfetta in cui al detto Berlusconi, per vincere di nuovo, sarebbero mancati soltanto 17.000 voti.
    Non è solo un problema di cattive frequentazioni: è una specie di osmosi, di compenetrazione con un mondo dal quale tutto avrebbe consigliato di stare alla larga. Un atteggiamento, se mi permettere di fare la voce un po’ grossa, in cui l’indifferenza morale va sottobraccio al pressappochismo e all’inettitudine. E siccome non è detto che l’indulgenza dei cittadini elettori duri all’infinito – ci sono già anzi fin troppi sintomi che sia in fase di rapido esaurimento – un tipico atteggiamento suicida, una specie di incontenibile corsa al baratro. Peccato solo che in quel baratro corriamo fortemente il rischio di essere trascinati anche noi.

    16.06.’07