Chi sono i razzisti

La caccia | Trasmessa il: 01/17/2010


    Immagini davvero spaventose e impressionanti fanno mostra di sé, in questi giorni, sulle prime pagine dei giornali, dedicate, ovviamente, alle cronache del terremoto che ha colpito la capitale di Haiti, con le foto della città distrutta e i primi piani dei volti sconvolti dei superstiti. Tuttavia, la foto che più delle altre mi ha fatto impressione (e, un po', lo confesso, mi ha spaventato) viene da più vicino ed è piena di volti sorridenti. È quella con cui le principali testate hanno illustrato, martedì scorso, la manifestazione “contro il razzismo” svoltasi a Rosarno, in riparazione dei noti fatti della settimana precedente. La ricorderete anche voi, suppongo: a reggere lo striscione, in cui quei cittadini si dichiarano “abbandonati dallo stato” e “criminalizzati dai media” e assicurano che “trent'anni di convivenza non sono razzismo”, ci sono un certo numero di indigeni molto compunti, tra i quali spicca una distinta signora di mezza età con gli occhiali e i ricciolini biondi, e un certo numero di africani altrettanto compunti, tra cui una mamma con bambino in braccio, quasi a citare il “Quarto stato” di Pelizza da Volpedo. Una immagine commuovente di concordia interrazziale e di solidarietà civile, certo, di quelle che vorremmo più spesso vedere in questo nostro paese. Ma una immagine, al tempo stesso, in così palese contraddizione con la realtà di quelle terre calabresi, quale, negli stessi giorni, ci è stata documentata, da rivelare, anzi, da gridare a pieni polmoni la propria inesorabile falsità. Perché non è possibile far finta di non sapere che mentre quei sette o otto immigrati partecipavano in prima fila alla manifestazione riparatoria, tutti gli altri – ed erano più di milleduecento – venivano sloggiati senza complimenti dalla zona, gli edifici degradati in cui per anni avevano trovato rifugio erano spianati al suolo e il ministro degli interni dichiarava in senato la sua inflessibile volontà di espellere dal paese tutti coloro che non avessero dimostrato di essere in perfetta regola. Tutti modi singolari, lo ammetterete, di fare ammenda delle sparatorie e della caccia all'uomo dei giorni precedenti e di celebrare trent'anni di convivenza armoniosa e integrata.
    Propositi e finalità di quel corteo sono già stati messi in discussione in varie sedi, nel senso che qualcuno non è disposto a giurare sulla buona fede se non di tutti, almeno di alcuni tra gli organizzatori e i partecipanti. Ciò non toglie, naturalmente, che i più potessero essere, nella loro volontà di manifestare contro il razzismo, assolutamente sinceri. Ma non è questo il punto. Il punto è che fa impressione (e un poco – lo ripeto – spaventa) questa risolutezza nel voler allontanare da sé, dalla propria comunità, dalla propria città nel suo complesso quella nomea infamante. Perché i manifestanti non intendevano distinguersi da altri comportamenti dei loro concittadini, non intendevano sostenere che loro personalmente, a differenza di quanti avevano partecipato ai raid dei giorni scorsi, non si riconoscevano nelle violenze e negli abusi contro gli immigrati africani. Il loro messaggio era chiarissimo e, in un certo senso, ecumenico: di razzismo a Rosarno non bisognava neanche parlare, a rischio di rendersi complici di un'odiosa calunnia mediatica. Come d'altronde, sostenevano in molti (senza dirlo), in quel felice centro urbano non c'è neanche la piaga della criminalità organizzata, tanto è vero che uno striscione che ne auspicava l'allontanamento è stato fatto togliere dagli organizzatori. Ci sono soltanto dei problemi, di cui lo stato, tradizionalmente remoto, non si cura e che i buoni cittadini devo arrangiarsi a risolvere per conto loro, subendo per questo la criminalizzazione della stampa. E l'esibizione di quei pochi neri volonterosi funge da testimonianza della buona volontà di tutta la cittadinanza, nella cui autocoscienza invano si cercherebbe una traccia di rimorso o di rammarico per quello che è successo.
    Quel discorso, a prenderlo in sé, non fa una piega: verrebbe quasi la voglia di credergli. Ma poi uno riflette che la soluzione a cui quegli ottimi padri di famiglia sono addivenuti è quella dell'espulsione in massa, previ alcuni giorni di guerriglia razziale, e che i trent'anni di convivenza di cui ci si vanta hanno rappresentato, per gli immigrati, trent'anni di condizioni disumane, di alloggi di fortuna (da cui è stato giusto mandarli via, come hanno spiegato alcuni filantropi in televisione, perché in quelle condizioni era una vergogna farli restare, come se la vergogna fosse da attribuire a qualcun altro) e di feroce sfruttamento sul lavoro e la voglia gli passa. Allontanati i neri – salvo quei pochi necessari a reggere sorridendo lo striscione – a raccogliere i mandarini verrà qualcun altro, probabilmente di pelle bianca e organizzato da qualcuno che non è chiaro chi, visto che di mafia o 'ndrangheta notoriamente laggiù non c'è traccia. Ma tutto questo, mi raccomando, non è razzismo.
    Insomma, siamo alle solite. L'Italia è il paese della Lega al governo, della legge Bossi Fini, dei respingimenti in mare, delle operazioni White Christmas, degli sgomberi delle baraccopoli e, dalla settimana scorsa, della simpatica abitudine di prendere gli immigrati che protestano a fucilate. Ma non è, credete a chi ha titolo per dirlo, dal ministro degli interni agli organizzatori del corteo di Rosarno, ripetete, non è un paese razzista. Ed è inutile chiedersi chi siano, allora, i razzisti che periodicamente turbano in vario modo la convivenza civile. I razzisti da noi, per definizione, sono sempre gli altri.

    17.01.'10