Chi ride e chi no

La caccia | Trasmessa il: 06/14/2009


    Avrete sentito anche voi – o meglio, lo avranno sentito, per bocca della nostra amica Sylvie, quelli tra voi che al lunedì verso mezzogiorno seguono i colleghi di “Zoe”, ma poi ne ha parlato anche qualche giornale – che una studiosa dell'Università di Portsmouth, Davila Ross, ha compiuto il singolare esperimento di fare il solletico sul collo, sotto i piedi e sotto le ascelle a ben venticinque esemplari di cinque specie diverse di primati: oranghi, gorilla, scimpanzé, bonobo e bambini umani. I risultato è stato inequivocabile: tutti e venticinque hanno reagito ridendo. Non solo: disponendo i vari suoni ottenuti lungo una linea che rappresenta la storia delle varie specie, si scopre che a specie vicine dal punto di vista evolutivo corrispondono modi di ridere simili, mentre le specie più distanti esprimono la loro ilarità in modi che meno si lasciano sovrapporre, il che fa presumere che l'attitudine alla risata accompagni tutte le cinque specie fin dai tempi del loro antenato comune, qualcosa come sedici milioni di anni fa.
    La constatazione può sembrare ovvia, visto che se ridiamo noi non si vede perché non dovrebbero ridere i nostri confratelli scimmioni. Eppure, nalla sua ovvietà, essa contraddice clamorosamente uno degli stereotipi culturali attraverso i quali l'umanità nei secoli ha definito se stessa. Che l'uomo e solo l'uomo fosse uno zôon ghelasticón – un animal risibile, in latino, – che, cioè, solo a lui fosse concessa la gioia della risata e quindi la dimensione culturale del comico è concetto antico, che risale per lo meno ad Aristotele, anche se non mi sembra che quella specifica espressione si trovi nella sua opera. Questa singolarità, comunque, veniva inevitabilmente collegata al suo disporre, in pari esclusiva, di un'anima e di una intelligenza, due attrezzature che gli permettevano di correlarsi con il resto dell'universo in modo assai più articolato dei “bruti”, degli altri animali, cioè, che mai avrebbero potuto cogliere il ridicolo in se stessi e negli altri, perché le relative operazioni mentali sono di natura troppo complessa per i loro modesti cervelli.
    Ahimè: erano tutte, in gran parte, fandonie. I primati sono perfettamente capaci di ridere, se ne hanno voglia, e non sono neanche gli unici. Leggo su “Repubblica” che da una ricerca di Jaak Panksepp, della Washington State University, si evince che ridono anche i topi, quando giocano o vengono sollecitati, pur se i loro squittii di allegria sono troppo acuti per venir percepiti dai nostri orecchi e chissà a quante altre specie lo sghignazzo è, per così dire, a portata di mano. E se la ridono tutti, uomini, topi e scimmioni, per manifestare in modo assolutamente naturale uno stato di benessere e gratificazione, come quella del bambino che viene titillato dagli adulti La cultura, insomma, c'entra davvero poco e lo spirito – inteso come caratteristica unica della nostra prosapia – ancora di meno.
    Oh Dio. Che il riso sia un fenomeno naturale, strettamente collegato con l'esperienza, altrettanto naturale, del piacere, a qualcuno era pur venuto in mente. L'idea, per esempio, era abbastanza diffusa nell'epicureismo rinascimentale. Così, nel Cortegiano del Castiglioni si può leggere che il riso “è quasi sempre testimonio di una certa ilarità che dentro si sente nell'animo, il qual da natura è tirato al piacere ed appetisce il riposo e il ricrearsi”, una frase che fa un poco di confusione ma va nella direzione giusta, anche se questo autore, ovviamente, condivide il pregiudizio per cui “questo riso solamente negli uomini si vede”. Ma è difficile rinunciare a una propria esclusività, quale che sia, e se l'esistenza dell'anima – ahimè – sfugge ostinatamente a qualsiasi indagine empirica, quella della risata la percepiamo tutti senza problemi e visto che il suono che la esprime negli altri animali, per ovvi problemi di difformità delle corde vocali nelle varie specie, è abbastanza differente dal nostro, si fa presto a convincersi che riguarda soltanto noi. A meno che qualche dissennato, naturalmente, non si metta a fare il solletico agli scimpanzé.

    Ah, sì. L'altra definizione aristotelica dell'uomo è quella di zôon politikón, “animale politico”. Anch'essa, naturalmente, è discutibile, visto che sono parecchi gli animali capaci di una qualche forma di organizzazione sociale e di divisione del lavoro, ma il discorso è troppo complicato per affrontarlo adesso. Viene da chiedersi, tuttavia, se le due definizioni siano compatibili tra di loro. La politica, almeno quella che conosciamo noi, è mortalmente seria e non ricordo di aver mai visto un politico ridere davvero di cuore. È vero che, com'è noto, qui in Italia di politici veri non ce ne sono, essendo quelli che si fanno passare per tali soltanto delle grottesche caricature della categoria, ma almeno un sorriso occasionale, una mezza risatina divertita, una battuta che non faccia proprio cadere le braccia o qualcosa del genere, ogni tanto, ce li si potrebbe aspettare. Invece niente. Il problema, lo ammetterete, merita di essere approfondito.

    14.06.'09

    Nota

    La ricerca di Davila Ross è reperibile sull'ultimo numero Current Biology (www.cell.com/current-biology). Cfr. anche “La Repubblica”, martedì 9 giugno 2009, p. 45. La citazione dal Cortegiano si legge in II, 45.