Chi ha scritto che

La caccia | Trasmessa il: 02/11/2007



Gli ascoltatori sanno per esperienza che non è costume di chi cura questa rubrica perdersi in vane dietrologie, ma quando ci vuole ci vuole, naturalmente, ed è arrivato il momento di rivelare coram populo, senza infingimenti né reticenze, che la famosa lettera dei sei ambasciatori ultraatlantrici, quella che spiegava ai nostri governanti come non fosse compito loro decidere se mantenere o meno le truppe nazionali nel teatro di guerra afgano, perché la parte del governo italiano, quando sono in ballo gli interessi strategici dei dominatori del mondo, è solo quella, come dice il poeta, di “servire e tacer”, non è – ripeto, non è – il frutto di un’incauta iniziativa diplomatica dei paesi che quei sei sciamannati rappresentano a Roma.  Sarebbe stato quasi automatico, per un diplomatico di professione (figuriamoci per sei), prevedere che una simile comunicazione avrebbe suscitato nella controparte irritazione e malumori, visto che a nessuno, neanche al più succube dei ministri, fa piacere sentirsi bacchettare in pubblico.  Ci voleva una mentalità ben sottile, uno spirito più aduso ai machiavellismi dell’alta politica di quanto non lo sia un comune ambasciatore, per capire l’utilità che il documento avrebbe potuto comunque sortire.  E una sola persona, in tutta la NATO, sembra dotata della sottigliezza necessaria per capire a quali risultati avrebbe portato una iniziativa, com’è stato detto, così “irrituale”.
        Insomma, non tiriamola per le lunghe.  Quella lettera, l’avrete capito anche voi, non può che averla scritta D’Alema.  L’avrà preparata prima di partire per il Giappone, dove prudentemente si è fatto trovare quando è stata resa pubblica, e l’avrà proposta alla comunità diplomatica grazie ai buoni uffici dell’ambasciatore rumeno o di quello bulgaro, personaggi con cui, da inossidabile ex bolscevico, era probabilmente in rapporti fin dai tempi del vecchio regime, quando Bucarest e Sofija non avevano misteri per lui.  Certo, le buone regole della diplomazia non avrebbero dovuto permettere che un documento del genere vedesse la luce, ma sul rappresentante degli Stati Uniti, che, in quanto sodale e uomo di fiducia di Bush, non deve essere né un genio né un uomo di eccessiva delicatezza, si poteva contare.  E così l’operazione è scattata, producendo con immancabile consequenzialità i risultati previsti.
        Quali fossero questi risultati l’avete visto anche voi.  All’inizio, si sono incazzati un po’ tutti.  Non soltanto gli eterni bastiani contrari della sinistra antagonista, tipo verdi, comunisti italiani e gente del genere.   C’è restato male Parisi, non ha nascosto un minimo di disappunto Rutelli, è corso un brivido di disagio persino sulle colonne, sempre così ricettive ai desiderata degli Stati Uniti, di “Repubblica” e del “Corriere”.  Era chiaro che nessuno sapeva esattamente come reagire: la delicatezza del problema e l’autorevolezza dell’interlocutore bloccavano qualsiasi velleità di risposta.  Il povero Prodi, nella consapevolezza che l’agognato invito a Washington si faceva sempre più lontano, deve aver passato delle nottate di inferno.
        Poi è tornato lui dal Giappone e tutto si è sbloccato in un amen.  Le note della Farnesina hanno cominciato ad accumularsi come se piovesse.  Quella lettera, ha scritto D’Alema, sarà stata anche ”animata dalle migliori intenzioni”, ma suscitava lo stesso “sorpresa e indignazione”, prestandosi come si prestava “a essere interpretata come una inopportuna interferenza esterna in una materia che è e resta di esclusiva  competenza del Governo e del Parlamento”.  Parole dure ed  efficaci, tali non solo da suscitare le scuse dal governo rumeno, che conta quello che conta, ma da costringere alla difensiva il portavoce McCormack del Dipartimento di Stato.  E di suscitare, soprattutto, l’entusiasmo e la solidarietà di tutte le componenti del governo e della maggioranza.  Era dai bei tempi di Sigonella che nessun politico nazionale la cantava così chiara a quei prepotentoni degli americani.   È stato, in tutta evidenza, un sollievo per tutti, una botta di orgoglio nazionale di cui si sentiva davvero bisogno.
        E di cui tutti, a quanto pare, si sono accontentati.  Perché non vi sarà sfuggito che, dopo aver mandato a dire a Bush e al suo ambasciatore che delle loro imposizioni possiamo fare benissimo a meno, il governo ha deciso all’unanimità di accettarle.  La missione in Afghanistan sarà debitamente rifinanziata, le decisioni su Vicenza restano quello che sono e se il Pentagono ha bisogno di altro spazio vicino a Novara, che si accomodi pure.  È come se la durezza della risposta verbale abbia esonerato l’esecutivo da ogni obbligo di darle seguito con i fatti.  È una sorta di catarsi politica che ricorda un poco l’esperienza degli spettatori della tragedia antica.  Dopo aver dato sfogo con quelle dure parole ai nostri sentimenti peggiori, al latente antiamericanismo che aduggia tanta parte della nostra sinistra, possiamo ritornare a essere, nei confronti degli Stati Uniti, gli alleati fedeli di sempre.  I Mieli e i De Mauro respirano di sollievo, Condoleeza  torna a sorridere, l’Italia ha ritrovato la sua posizione del mondo e D’Alema, naturalmente, pure.  E tutto grazie alla necessità di rispondere a quella provvidenziale missiva, che ci ha permesso di simulare una dignità di cui, nei fatti, ci siamo dimostrati incapaci.  Ditemi voi chi altri può aver avuto l’idea di spedircela.

11.02.’07