Gli ascoltatori sanno per esperienza
che non è costume di chi cura questa rubrica perdersi in vane dietrologie,
ma quando ci vuole ci vuole, naturalmente, ed è arrivato il momento di
rivelare coram populo, senza infingimenti né reticenze, che la famosa lettera
dei sei ambasciatori ultraatlantrici, quella che spiegava ai nostri governanti
come non fosse compito loro decidere se mantenere o meno le truppe nazionali
nel teatro di guerra afgano, perché la parte del governo italiano, quando
sono in ballo gli interessi strategici dei dominatori del mondo, è solo
quella, come dice il poeta, di “servire e tacer”, non è – ripeto, non
è – il frutto di un’incauta iniziativa diplomatica dei paesi che quei
sei sciamannati rappresentano a Roma. Sarebbe stato quasi automatico,
per un diplomatico di professione (figuriamoci per sei), prevedere che
una simile comunicazione avrebbe suscitato nella controparte irritazione
e malumori, visto che a nessuno, neanche al più succube dei ministri, fa
piacere sentirsi bacchettare in pubblico. Ci voleva una mentalità
ben sottile, uno spirito più aduso ai machiavellismi dell’alta politica
di quanto non lo sia un comune ambasciatore, per capire l’utilità che
il documento avrebbe potuto comunque sortire. E una sola persona,
in tutta la NATO, sembra dotata della sottigliezza necessaria per capire
a quali risultati avrebbe portato una iniziativa, com’è stato detto, così
“irrituale”.
Insomma,
non tiriamola per le lunghe. Quella lettera, l’avrete capito anche
voi, non può che averla scritta D’Alema. L’avrà preparata prima
di partire per il Giappone, dove prudentemente si è fatto trovare quando
è stata resa pubblica, e l’avrà proposta alla comunità diplomatica grazie
ai buoni uffici dell’ambasciatore rumeno o di quello bulgaro, personaggi
con cui, da inossidabile ex bolscevico, era probabilmente in rapporti fin
dai tempi del vecchio regime, quando Bucarest e Sofija non avevano misteri
per lui. Certo, le buone regole della diplomazia non avrebbero dovuto
permettere che un documento del genere vedesse la luce, ma sul rappresentante
degli Stati Uniti, che, in quanto sodale e uomo di fiducia di Bush, non
deve essere né un genio né un uomo di eccessiva delicatezza, si poteva
contare. E così l’operazione è scattata, producendo con immancabile
consequenzialità i risultati previsti.
Quali
fossero questi risultati l’avete visto anche voi. All’inizio, si
sono incazzati un po’ tutti. Non soltanto gli eterni bastiani contrari
della sinistra antagonista, tipo verdi, comunisti italiani e gente del
genere. C’è restato male Parisi, non ha nascosto un minimo di disappunto
Rutelli, è corso un brivido di disagio persino sulle colonne, sempre così
ricettive ai desiderata degli Stati Uniti, di “Repubblica” e del “Corriere”.
Era chiaro che nessuno sapeva esattamente come reagire: la delicatezza
del problema e l’autorevolezza dell’interlocutore bloccavano qualsiasi
velleità di risposta. Il povero Prodi, nella consapevolezza che l’agognato
invito a Washington si faceva sempre più lontano, deve aver passato delle
nottate di inferno.
Poi
è tornato lui dal Giappone e tutto si è sbloccato in un amen. Le
note della Farnesina hanno cominciato ad accumularsi come se piovesse.
Quella lettera, ha scritto D’Alema, sarà stata anche ”animata dalle
migliori intenzioni”, ma suscitava lo stesso “sorpresa e indignazione”,
prestandosi come si prestava “a essere interpretata come una inopportuna
interferenza esterna in una materia che è e resta di esclusiva competenza
del Governo e del Parlamento”. Parole dure ed efficaci, tali
non solo da suscitare le scuse dal governo rumeno, che conta quello che
conta, ma da costringere alla difensiva il portavoce McCormack del Dipartimento
di Stato. E di suscitare, soprattutto, l’entusiasmo e la solidarietà
di tutte le componenti del governo e della maggioranza. Era dai bei
tempi di Sigonella che nessun politico nazionale la cantava così chiara
a quei prepotentoni degli americani. È stato, in tutta evidenza,
un sollievo per tutti, una botta di orgoglio nazionale di cui si sentiva
davvero bisogno.
E
di cui tutti, a quanto pare, si sono accontentati. Perché non vi
sarà sfuggito che, dopo aver mandato a dire a Bush e al suo ambasciatore
che delle loro imposizioni possiamo fare benissimo a meno, il governo ha
deciso all’unanimità di accettarle. La missione in Afghanistan sarà
debitamente rifinanziata, le decisioni su Vicenza restano quello che sono
e se il Pentagono ha bisogno di altro spazio vicino a Novara, che si accomodi
pure. È come se la durezza della risposta verbale abbia esonerato
l’esecutivo da ogni obbligo di darle seguito con i fatti. È una
sorta di catarsi politica che ricorda un poco l’esperienza degli spettatori
della tragedia antica. Dopo aver dato sfogo con quelle dure parole
ai nostri sentimenti peggiori, al latente antiamericanismo che aduggia
tanta parte della nostra sinistra, possiamo ritornare a essere, nei confronti
degli Stati Uniti, gli alleati fedeli di sempre. I Mieli e i De Mauro
respirano di sollievo, Condoleeza torna a sorridere, l’Italia ha
ritrovato la sua posizione del mondo e D’Alema, naturalmente, pure. E
tutto grazie alla necessità di rispondere a quella provvidenziale missiva,
che ci ha permesso di simulare una dignità di cui, nei fatti, ci siamo
dimostrati incapaci. Ditemi voi chi altri può aver avuto l’idea
di spedircela.
11.02.’07