Chi fa come la Russia

La caccia | Trasmessa il: 02/08/2009


    È da un paio di settimane che rimugino su un'intervista rilasciata a “Repubblica” lunedì 26 dal ministro Sacconi. E sì, lo so che cosa volete dirmi, che un rovello così prolungato è francamente superfluo, che sulle opinioni del ministro Sacconi si può benissimo sorvolare, di altro non trattandosi – in ultima analisi – che di uno dei tanti trafficanti in piatti di lenticchie passati, con gli anni, dal centrosinistra di Craxi al centrodestra di Berlusconi e convinti, per giunta, che l'incoerenza sia tutta degli altri. Oltretutto, l'intervista riguardava le reazioni dei sindacati, in particolare della Cgil, alla stipula del nuovo accordo sulle regole contrattuali: entrava cioè in quel campo minato in cui, vuoi per una certa povertà di trasparenza delle organizzazioni operanti, vuoi per la tendenza delle parti a mantenere il discorso quanto più possibile a livello di addetti ai lavori, si può dire praticamente di tutto senza rischiare nulla. Tuttavia, una poltrona da ministro è sempre una poltrona – quella di Sacconi, poi, è addirittura tripla, comprendendo oltre al Lavoro e alle Politiche Sociali pure la Salute, il che gli ha permesso di dar prova del più sfrenato ossequio per i desiderata del Vaticano nel caso Englaro – e chi la occupa dovrebbe sforzarsi di evitare almeno le contraddizioni più plateali. Uno sforzo dal quale, nel caso, ci si è evidentemente astenuti.
    Assicurava infatti il noto esponente di Forza Italia che a quell'accordo, per cui il salario sarà “legato alla produttività e ai risultati dell'azienda”, i lavoratori, checché ne dica Epifani, sono favorevoli in blocco e che “le posizioni della Cgil non sono destinate ad avere consenso” visto che “la svolta culturale” verificatasi è “così profonda da non lasciare spazio alle resistenze legate a un vecchio approccio ideologico”. Non si capiva bene che cosa ci fosse di ideologico nel rifiuto di firmare, in pratica, una cambiale in bianco alla controparte, visto che gli imprenditori nazionali hanno sempre avuto la tendenza a seguire il consiglio di quel vecchio film di Woody Allen – prendere i soldi, scappare e lasciare le maestranze in braghe di tela – ma il concetto era chiaro e l'ipotesi, così in astratto, sembrava lecita.
    Va bene, pensava il lettore. Se i lavoratori sono d'accordo, spetterà al ministro farà in modo che esso accordo sia dichiarato: ci sono, per esprimersi in merito, degli strumenti appositi. Difatti l'intervistatore chiedeva al ministro se, allora, fosse favorevole a una qualche forma di referendum sull'accordo. Se ricordate, in genere si fa così. Ma, stupore stupore, favorevole il ministro non era. “In generale” suonava la sua risposta “credo che si debbano superare tutte le forme di democrazia diretta”. E mica per niente: “Ormai ci confrontiamo con paesi che hanno processi decisionali velocissimi, penso al Brasile, alla Cina, alla Russia”. Una elencazione, in verità, piuttosto stupefacente, che imponeva – in pratica – la domanda successiva: “Le sembrano tutti modelli di democrazia?” Cui seguiva l'ancora più stupefacente risposta “No, però è così.” Perchè “non c'è tempo per le decisioni assembleari, tanto più per le relazioni industriali”.
    Visto che nemmeno gli ex craxiani più impenitenti possono essere convinti che con un “no, però è così” si risolva il problema della democrazia nel mondo del lavoro (e, più in generale, della rappresentanza), la risposta significava soltanto che a Sacconi (e al governo tutto, suppongo) la questione non interessava e non interessa. Che di fronte alla convinzione – sua, del governo, della confindustria o chissà di chi – che sul nuovo modello contrattuale viga un solido consenso, non valga neanche la pena di fare un controllino. Ci vuole troppo tempo e noi dobbiamo confrontarci con il Brasile. Che è una bella cosa da sentir dire da un membro del governo, soprattutto tenendo conto che Sacconi, in teoria, dovrebbe essere uno di quei tecnici ragionevoli messi in quel posto per limitare i danni che la tendenza a improvvisare di Berlusconi e dei suoi più fidi tende a provocare a valanga. E se un ministro ragionevole dice che a lui della democrazia diretta non gliene potrebbe fregare di meno, la mente rifugge all'idea di quanto potrebbero dire gli altri.
    Come vedete motivi di cui preoccuparsi in quelle dichiarazioni ce n'erano. Poi, certo, le interviste sono solo interviste, l'argomento ha già perso qualsiasi interesse di attualità e i lavoratori, comunque, troveranno il modo di far capire come la pensano. Ma, capirete, una volta a cantare che noi faremo come la Russia erano le mondine o gente del genere e gli slogan sulla Cina li scandivano gli studenti contestatori. A ministri che, sia pure in prosa, affermano lo stesso concetto non eravamo abituati e perdonateci un minimo di stupore.

    08.02.'09