Chi dà i numeri

La caccia | Trasmessa il: 04/25/2004




Una volta, quando l’universo era giovane ed eravamo tutti politicamente molto meno corretti, si raccontavano le barzellette sui matti.  Il genere, oggi, non è più praticato né praticabile e non perché quelle storielle avessero un contenuto particolarmente offensivo, visto che le manifestazioni di “follia” di cui riferivano non erano gran che diverse, dopo tutto, da quelle che caratterizzano il comportamento quotidiano di tutti noi, ma perché il fallimento della nostra società nell’affrontare il problema del disagio mentale è talmente clamoroso che toglierebbe la voglia di scherzare a chiunque.  Una, tuttavia, me la ricordo e permettetemi di rammentarvela.  Tratta di un signore di buona volontà in visita al classico manicomio, che si imbatte, in cortile, in un gruppo di ospiti intenti a una strana occupazione.  Uno, a turno, pronuncia dei numeri ad alta voce –  “Sette!”, “Dodici!”, “Sessanta!” –  e gli altri, ogni volta, si mettono a ridere a crepapelle.  Il tipo chiede spiegazioni a un medico di passaggio e gli viene risposto che i degenti si stanno raccontando delle barzellette.  “Come?” ribatte stupito.  “Io sento solo dei numeri.”  “Appunto” spiega l’interlocutore.  “Loro hanno un certo libro, dove tutte le barzellette in circolazione sono elencate e numerate.  Se si pronuncia il numero, ricordano la storiella relativa e, se gli piace, ridono.”  “Interessante” commenta il tipo. “Voglio provare anch’io”.  Raggiunge il gruppo, fa segno di tacere, si mette al centro e comincia, anche lui, a dare, come si dice, i numeri.  “Trentadue!” grida.  Silenzio di tomba.  “Sedici!” insiste. Indifferenza generale.  “Quarantuno! Novantatre!  Settanta!” e nessuno reagisce, fosse pure con l’ombra di un sorriso.  “Ma cosa succede?” sbotta alla fine, un po’ irritato.  “Eh” fa il medico, con aria saputa.  “Le barzellette bisogna saperle raccontare.”

       Non fa ridere, lo so, ma non ve l’ho ricordata per questo.  Il fatto è che chiunque abbia inventato, a suo tempo, questa storiella insulsa, aveva una capacità profetica straordinaria.  Aveva previsto, con chissà quanti anni di anticipo, l’attuale campagna elettorale del Presidente Berlusconi.   Anche in quella, come avrete notato, i numeri abbondano.  Su quei manifesti sei per tre, accanto a quello strano ritratto di profilo a labbra serrate che lo fa somigliare a un delfino araldico, sullo sfondo del tricolore, che male, notoriamente, non fa, il leader di Forza Italia ne esibisce un repertorio davvero notevole.  “28.622.000 italiani pagano meno tasse” ci garantisce.  “Meno 17% furti nelle case” proclama.  E poi: “Meno 40% di immigrati clandestini”;  “7.466 miliardi in più per la scuola”; “1.353.000 nuovi posti di lavoro regolari” e via enumerando.

       Sono, naturalmente, barzellette anche queste ed è altrettanto improbabile che, in sé, facciano ridere.  Perché, lo sapete, si ride sempre di qualcosa.  La risata presuppone l’avvenuta ricezione di un messaggio dotato di un significato decifrabile e quelle cifre, ovviamente, non significano nulla.  Per apprezzare il valore di una quantità X in più o in meno di un Y altro, si deve poter disporre di ragionevoli informazioni su quell’ Y, per non dire del lasso di tempo in cui si è realizzato l’incremento o il decremento relativo e di come li si è calcolati.  Mi compiacerò del fatto che 28.622.000 italiani paghino meno tasse, quando avrò appurato se per avventura non gli tocca pagare molto di più qualcos’altro.  Che si registri il 40 per cento in meno di immigrati clandestini è una notizia che potrà rallegrarmi solo nel caso che il discorso generale sull’accoglienza e sull’integrazione risponda a dei parametri che considero soddisfacenti e prima di applaudire al milione e 353.000 nuovi posti di lavoro regolari voglio assolutamente sapere cosa si intende per “regolari”.   Ai numeri si può far dire di tutto e il fatto di essere espressi per stringhe numeriche non aggiunge nulla alla ben nota implausibilità dei messaggi elettorali.

       Ma le barzellette bisogna saperle raccontare e in questo campo, si sa, il nostro cavaliere è uomo che non ha eguali.  I suoi numeri potranno essere poco credibili, potranno sembrarci esagerati o semplicemente irritanti (più di un concittadino, credo, si sarà irritato al pensiero che tra quei 28.522.000 fortunati che pagano meno tasse lui, chissà come, non c’è), ma a queste minime manchevolezze ovvia largamente la potenza di fuoco.  Tutti quei manifesti, tutti con lo stesso profilo delfinaceo, lo stesso tricolore e la stessa impudica esibizione di cifre non possono, alla lunga, che fare il loro effetto.   Di un uomo capace di far affiggere sui cantoni un milione ottocentoventitremila seicentoquarantasei manifesti con la sua faccia, non dobbiamo credere – in fondo – che non sia capace di tutto?  Il medium, notoriamente, è il messaggio e in questo caso il messaggio è forte e chiaro: è quello di chi si considera comunque il più forte e garantisce ad amici e nemici che chi non si affretta a sottomettersi l’avrà a che fare con lui.  E se, per confermare questo basilare principio, bisogna ricorrere a qualche menzogna clamorosa, be’, poco male: in un mondo che di menzogne praticamente vive, anche la capacità di essere il più bugiardo di tutti, in cifre come a parole, ha il suo peso.



Permettetemi, in conclusione, di raccontarvi anch’io, se non proprio una barzelletta, almeno un aneddoto.  Sembra che un tempo, secoli fa, uno di quei feroci condottieri dell’Asia Centrale, non so se Tamerlano, Gengis Kan o chi altri, avesse chiesto al più riputato pittore dell’impero di fargli il ritratto.  L’artista, lusingato dall’incarico e fiducioso nella ricompensa, produsse un’opera di rara somiglianza.  Ma il truce individuo, come spesso capita, era calvo, mezzo guercio da un occhio (non si sa se a causa di una freccia nemica o per un lifting riuscito male) e di statura assai bassa: l’immagine ritratta non gli piacque affatto e ordinò che l’artista venisse immediatamente impalato.  Fu convocato un altro pittore che, capita la lezione, prestò al suo modello fluenti capelli, occhi da falco e una statura da far invidia a Fassino.   Ahimè: quell’interpretazione lusingatrice faceva risaltare ancora più pesantemente agli occhi di tutti i difetti che intendeva celare e anche il secondo artista finì su un palo.  Dopo di che, capirete, fu difficile trovare, negli ambienti artistici del paese, qualcuno disposto ad accettare la commissione, finché non si presentò un imbrattatele qualsiasi che, pur deboluccio nella prospettiva e scarsamente dotato nel resto, riuscì a soddisfare il sovrano.  Lo ritrasse, appunto, di profilo, con l’elmo in testa e a mezzo busto.  Ebbene, elmo a parte, tutto questo non vi ricorda qualcuno?


25.04.’04