Che fine fanno gli sterpi

La caccia | Trasmessa il: 05/01/2005




Mi permetterete, spero, di non avere un’opinione particolare sulla figura del nuovo papa.  Certo, personalmente avrei preferito che al soglio di Pietro non fosse stato eletto il responsabile dell’ex Santo Uffizio e dal fatto che nella prima dichiarazione pubblica abbia voluto definirsi “un umile operaio nella vigna del Signore” non ho tratto molta consolazione, perché quella espressione, nonostante il tono tra il populista e il georgico, trae dai precedenti biblici un significato abbastanza inquietante, visto che nei sacri testi la funzione principale di chi in tale vigna lavora è quella di estirparne gli sterpi, tanto è vero che Dante la usa nel suo elogio di san Domenico (Paradiso XII,  86 ss.), per alludere all’Inquisizione e alla crociata contro gli Albigesi, che resta uno dei più efferati massacri noti alla storia.  Anche la scelta del nome mi ha lasciato, in un certo senso, perplesso.  In fondo, a parte i riferimenti al santo patrono di Europa, su cui non saprei dire, e quelli alla persona di papa Della Chiesa, che definì, sì, la guerra una “inutile strage”, ma in linea generale non diede grandissima prova di sé (anche se va detto che il compito di risollevare la chiesa dopo i disastri del pontificato di Pio X era da brividi), ci vuole una ben alta opinione di sé per definirsi con un nome parlante così impegnativo e il compito del Vicario di Cristo, ne converrete, dovrebbe essere quello di benedire gli altri e non se stesso.  Ma queste, in definitiva, sono fisime mie.  I cardinali si scelgono il principale in base alle considerazioni che loro considerano prioritarie e non si preoccupano certo delle speranze e delle perplessità dei laici, soprattutto di quelli sofistici come me.  E visto che, almeno in teoria, siamo in regime di separazione tra lo stato e la chiesa, ci si potrebbe persino azzardare a dire, con una forzatura ottimistica, che sono affari loro.

       Affari nostri sono, invece, i comportamenti della società secolare di fronte all’augusta figura.  E ammetterete che, da questo punto di vista, queste prime due settimane di regno di Benedetto XVI non sono del tutto incoraggianti.

       Non alludo tanto alle parole dei potenti, che sono rimaste – mi sembra – nell’ambito della cortesia istituzionale, né al giubilo ostentato delle folle e ai cori da stadio che hanno accompagnato le prime uscite del pontefice, anche quando erano dettate da un’esigenza banale come quella di organizzare il trasloco delle proprie masserizie private.  A questo siamo abituati, visto che, nella società dello spettacolo e della omologazione, quella di confondersi nella massa resta, paradossalmente, una delle poche possibilità lasciate a chi voglia rendersi in qualche modo visibile e confondersi in una folla osannante è più facile (e meno pericoloso) che espugnare la Bastiglia, un’attività cui le masse si dedicano sempre meno e d’altronde quando ci provano poi gli si dà ampia ragione di pentirsene.  Penso piuttosto al lavoro che sulla figura del nuovo papa stanno facendo gli operatori della informazione e gli strateghi dei media, che sono poi quelli che alle manifestazioni di cui sopra danno notorietà e risonanza mondiali.

       Perché oggi, se si prescinde dalle metafore canine impiegate da pochi colleghi spiritosi ma irriverenti, è in corso una grande attività pubblicistica di rettifica dell’immagine papale.  Il cardinale Ratzinger era il cardinale Ratzinger e lo si poteva definire senza danno un arcigno difensore dell’ortodossia, come a dire un discreto nemico della modernità, come ben si addiceva d’altronde al suo incarico e a chi glielo aveva conferito.   Di Benedetto XVI, chissà perché, non si può dire niente di simile.  Ci stupirà tutti, assicurano.  Mica vero che sia sempre stato quel reazionario che dicono: al Concilio era tra i più progressisti e non è colpa sua se, in seguito, gli studenti contestatori lo hanno fatto incazzare a Tubinga.  E poi è timido, accarezza i bambini, suona il pianoforte, sorride sempre, alla Hitlerjugend lo hanno iscritto di ufficio e non poteva farci niente, poveretto, vedrete che novità ha in serbo, sui rapporti interreligiosi e sull’ammissione dei divorziati ai sacramenti ha idee straordinarie, è modesto, lo ha detto lui che a farsi eleggere non ci pensava neppure e, insomma, che cosa si può volere di più?

       Ora, su quanto riserba il futuro, notoriamente, non si può mai scommettere, ma è abbastanza ovvio che, a parte le notazioni sulla Hitlerjugend, in sé ineccepibili, e quelle sulla timidezza, che non contano molto perché la storia conosce parecchi casi di timidi che, per reazione, ne hanno fatto di ogni, si tratta di considerazioni abbastanza infondate.  Sono tutte illazioni tratte su elementi deboli, un misto di speranze personali, elementi di colore e petizioni di principio.  Aria fritta, in sostanza.  Belle parole che non tengono conto né delle tendenze dimostrate dall’uomo (che è stato prefetto della sua Congregazione dal 1981 e ha avuto, quindi, quasi un quarto di secolo per far conoscere le sue idee) né dei motivi che, in tutta evidenza, ne hanno determinato l’elezione.  Ed è strano, perché se la chiesa, a modo suo, ha avuto del coraggio e in una situazione difficile (perché, Wojtyla o non Wojtyla, la situazione del divino nel mondo moderno è obiettivamente difficile) ha deciso di affidarsi a una figura ben caratterizzata, affidandole l’ovvio mandato di tirare avanti senza compromessi sulla sua strada, la maggior parte dei laici di questa caratterizzazione sembra non volerne proprio sapere.  Meglio, molto meglio, attaccarsi a ogni costo alla figura del papa buono, del conciliatore, di quello che farà contenti tutti, che annullerà nel suo abbraccio ogni futile contrapposizione tra progressisti  e conservatori, che curerà le relazioni pubbliche e darà agio ai bravi giornalisti di scrivere tanti begli articoli e di pubblicare tanti bei libri sulla sua umanità e il suo zelo paterno.  In undici giorni, di fatto, di agiografie del genere in edicola ne sono già apparse quattro o cinque.

       Tutto questo, vi dicevo, non fa presagire niente di buono.  Non tanto per la chiesa, che con i tipi come lui se l’è sempre cavata benissimo, quanto per un mondo laico che non perde occasione per  dimostrarsi perennemente incerto sui propri valori, nonché pericolosamente incline a dimenticare che gli sterpi estirpati dagli umili lavoranti nella vigna del Signore in genere finiscono in un allegro falò.  E speriamo che questa volta sia solo metaforico.


01.05.’05