Bramini informatici

La caccia | Trasmessa il: 02/04/2001



Vi dicevo prima (e scusatemi se torno in argomento, ma sono appena rientrato e, francamente, non saprei di che altro parlarvi) della passione per l’elettronica che sembra pervadere il subcontinente indiano.  In effetti, è una cosa che fa piuttosto impressione.  Chi viaggia in India non è mai sicuro di trovare un albergo, o un ristorante, o un negozio che rispondano agli standard qualitativi e igienici cui, a torto o a ragione, pensa di aver diritto, ma sulla possibilità di un collegamento Internet può sempre contare.  Non c’è località rurale, per quanto remota, o realtà urbana, per quanto degradata, che non offra il suo “Computer center” o il suo “Internet café”.  Si tratterà, magari, di un buco incredibile, ricavato mediante precari tramezzi nello scheletro in cemento di un qualche edificio incompiuto o abbandonato e afflitto dagli effluvi di una fognatura a cielo aperto e dal ronzio di innumerevoli zanzare, ma sarà comunque provvisto di cinque o sei apparecchi pronti ad assicurare, per quaranta rupie all’ora (poco meno di duemila lire), fulminei collegamenti ai patiti della navigazione in rete.  Dappertutto incombe la pubblicità delle scuole di informatica e dei corsi di programmazione.   Gli annunci economici sui quotidiani non sembrano offrire e cercare nient’altro che esperti in questo campo: persino dalla lettura di quelli matrimoniali (che sono i più e, anzi, nell’edizione domenicale vengono raccolti in appositi, massicci supplementi) si evince che il sogno di ogni famiglia indiana con una o più figlie da maritare –  perché lì sono ancora i genitori che cercano l’anima gemella per le loro creature –  è rappresentato da un fidanzato di alta casta con un oroscopo favorevole e un diploma in software.  Nessuno, apparentemente, sente alcuna contraddizione tra il sistema di valori inerente all’organizzazione per caste, che risale, com’è noto, a tremila anni fa e riflette delle necessità di organizzazione sociale che non sono esattamente quelle della moderna cultura industriale, e quello dell’informatica, che della moderna cultura industriale dovrebbe essere la figlia prediletta.
        Ma forse quella contraddizione non ha grande importanza, se non agli occhi di qualche presuntuoso visitatore europeo.  L’India, nonostante le palme e l’occasionale presenza di elefanti per strada, non è certo un paese esotico, nel senso che si dà comunemente al termine.  È un paese moderno, dotato di solide strutture industriali e finanziarie e di un ritmo di crescita dell’economia che supera il 6% e dipende in gran parte – a quanto leggo – proprio dallo sviluppo dei settori tecnologicamente avanzati, che, potendo offrire del personale molto qualificato a costi piuttosto bassi, attirano gli investimenti stranieri come mosche sul miele.  Il fiorire degli Internet café in mezzo alle baraccopoli non rappresenta una sovrapposizione indebita, un dato pittorescamente paradossale, ma è la logica conseguenza di una scelta coerente di sviluppo economico.  Si presume che chi quella scelta ha compiuto ritenga che, grazie a essa, presto o tardi le baraccopoli potranno essere eliminate una volta per tutte.
        Intanto, però, le baraccopoli restano.  Il paese è moderno, ma è un paese moderno degradato.  Gli edifici delle città non sono diversi dai nostri, ma, sarà il clima, sarà la povertà che rende impossibile la manutenzione, sarà qualcosa d’altro, sono tutti come corrosi, sbocconcellati, abbandonati al degrado prima ancora di essere terminati e, come si è visto la settimana scorsa nel Gujarat, pur essendo in cemento armato, hanno una certa tendenza a venir giù come castelli di carte.  Di fronte alle scuole di computeristica sono parcheggiate vecchie automobili modello anni ’50 e  i carri dei bufali, quelli con il timone fisso appoggiato alla gobba della povera bestia.  Nelle risaie che circondano i colleges si semina con l’aratro a trazione animale (e l’animale in questione può benissimo essere un uomo, o una donna) e ci si spezza la schiena mietendo a mano con il falcetto corto.  Insomma, si ha l’impressione che il paese, nella sua corsa verso il futuro, abbia fatto una specie di salto, che nel suo sviluppo si sia avuto come uno iato.  La modernizzazione, diciamo così, primaria, quella che avrebbe dovuto dare a tutti le case, l’acqua potabile, le fognature, i trattori e le mietitrebbia sembra essere  stata abbandonata a mezza strada: i suoi provvisori manufatti sono stati lasciati andare in rovina e si presentano, infatti, come se avessero subito un bombardamento o una qualche catastrofe similare.   Ed è su queste rovine che fiorisce la nuova cultura dei gadget elettronici,  a dimostrazione di come il superfluo riesca sempre a far aggio sul necessario.
        Queste, naturalmente, sono sole delle impressioni superficiali, quali le può avere chi ha visitato una parte piccolissima di quella grande nazione e vi ci si è trattenuto soltanto tre settimane.   Ma è noto che chi fa del turismo, se ha ben poche probabilità di imparare davvero qualcosa sul paese in cui viaggia, può sempre servirsi della possibilità di confronto per capire meglio il suo.  E che il superfluo prevalga sul necessario, modello di sviluppo o non modello di sviluppo, non succede soltanto in India.   Lì, come altrove, la nuova economia delle comunicazioni e dell’informazione automatica cresce a spese della miseria di chi da quel mondo è irrevocabilmente escluso. Per quanto possa sembrare strano, sono i contadini delle risaie, che vivono in capanne di fango con i tetti di foglie di palma intrecciata e arano e mietono con la sola energia delle loro braccia, quelli che finanziano l’informatizzazione del paese.   Naturalmente, da noi – fatte le debite proporzioni – succede lo stesso, perché anche nel nostro Occidente la crescente povertà dei più supporta il crescente benessere dei pochi, ma laggiù, date le dimensioni sociali del fenomeno, il processo è molto più evidente.  Un’economia che si alimenta della miseria degli esclusi, non può che dare il meglio di sé là dove gli esclusi sono di più e più sconvolgente è la loro miseria.   Insomma, la molla dello sviluppo che il mondo contemporaneo ci propone è comunque rappresentata, nella ricca Europa come nell’Asia desolata, dall’ineguaglianza.   E se dal riconoscimento di questa realtà, in teoria, dovrebbe scaturire un programma di lotta comune, per arrivare a tanto ci vuole ben altro che un viaggio in India (Carlo Oliva).

04.02.’01