Braccia rubate all’edilizia

La caccia | Trasmessa il: 04/01/2007




    La sinistra, si sa, è in fase di ristrutturazione. È logico, quindi, che, come sempre quando c’è qualcosa da ristrutturare, si apra un cantiere. Un invito in tal senso, stando alle cronache in questi giorni, è stato rivolto dalla dirigenza di Rifondazione Comunista, impegnata nella sua terza conferenza organizzativa, a tutte quelle forze (e spezzoni di forze) che la prevista ancorché non immediata costituzione del Partito Democratico minaccia di lasciare, come si suol dire, in braghe di tela. Sarà quel cantiere la sede, se tutto andrà bene, in cui potrà nascere un nuovo soggetto politico, senza che nessuno sia costretto a rinnegare la propria identità.
    Non ho titoli per intervenire nel relativo dibattito, ma l’invito mi sembra lodevole e meritorio. E ancora di più lo sarebbe, ne converrete, se si riferisse a un cantiere vero e proprio, se si configurasse – cioè – come un’esortazione a che gli esponenti di un ceto politico che non ha particolare esperienza di lavoro manuale si ingegnino a riciclarsi impilando mattoni, arrampicandosi sui ponteggi e impastando calcina. Tutte attività faticose, certo, ma non prive di una loro intrinseca dignità e tali da restituire a molti, troppi cervelli esausti il senso del contatto con il reale.
    Il suggerimento, se vogliamo, potrebbe essere esteso con vantaggio ancora maggiore a quei dirigenti della sinistra che nel Partito Democratico sono intenzionati a entrare. Un partito nuovo come quello che si propongono, in fondo, potrà essere considerato tale nella misura in cui riuscirà a esprimere una nuova dirigenza e sarebbe tanto di guadagnato se, in questa sua fase aurorale, gli esponenti della vecchia guardia rinunciassero discretamente a proporsi nello stesso ruolo di prima. Anche per loro, così, si porrebbe il problema di riciclarsi e non c’è dubbio che in un cantiere, sotto la guida di uno o più capomastri d’esperienza, potrebbero rendersi utili alla comunità senza fare gran danno. Non più danno, almeno, di quanto non abbiamo provocato negli ultimi quindici anni.
    Ahimè. Non è necessaria una particolare esperienza di cose politiche per capire che questo è solo un bel sogno, che il “cantiere” di cui si parla è fatto della stessa stoffa dei “tavoli” e dei “percorsi” che da qualche tempo affliggono il discorso politico. al novero di quelle metafore di cui ci si serve sempre di più in assenza di idee nuove e che altro non esprimono se non la volontà di continuare, senza dirlo, nei soliti giochi. Tutti sanno che a certi tavoli non ci si siederà mai e che certi percorsi non possono che ricondurre al punto di partenza: proprio come possiamo stare sicuri che in quel cantiere, se mai sarà aperto, non si farà che replicare il già noto. Il problema di costruire un nuovo soggetto politico senza rinnegare le identità precedenti è troppo intrinsecamente contraddittorio per non continuare a eludere i suoi affezionati cultori.
    Personalmente ho il sospetto che alla base di tutto ciò ci sia soprattutto una confusione: quella tra identità – appunto – e strutture organizzative. È da un pezzo che a sinistra, di contro alla ormai inarrestabile tendenza alla frammentazione delle seconde, si è affermata una sostanziale uniformità della prima. E non nel senso che tutti condividano identici valori e ambizioni, ma in quello, piuttosto, della fragile consapevolezza dell’impossibilità di essere diversi da quel che si è. Non ci sono identità, insomma, al di fuori di quelle organizzative ed è proprio questo che rende così difficili, se non impossibili, i processi di riorganizzazione. uscire da un simile circolo vizioso, finora, nessuno è riuscito a individuare un percorso ed è difficile che ci si arrivi cambiando semplicemente metafora.

    01.04.’07