Boicottare che

La caccia | Trasmessa il: 02/24/2008


    Mi sembra sia ormai in corso di esaurimento la polemica nata dalla proposta di alcuni ambienti della sinistra torinese (e non solo) di boicottare la Fiera del Libro, prevista nel capoluogo piemontese per il prossimo maggio, in segno di protesta contro la decisione di invitarvi come “paese ospite” lo Stato d'Israele. Una proposta, a prima vista, assolutamente ragionevole, visto che l'attuale politica del governo israeliano, supportata, per quanto ne so, da buona parte della popolazione e del ceto intellettuale, non è tale da invogliare nessuno a scambiare con quel paese dei sensi particolarmente amorosi, ma duramente contestata a sua volta, da destra e – dopo l'uscita di Valentino Parlato sul “Manifesto” – anche da sinistra. Tuttavia, visto che la questione è importante e qualche ascoltatore ha addirittura chiesto la nostra opinione in proposito, mi permetterò di riprenderla brevemente.

    Gli argomenti contro il boicottaggio, come ricorderete, sono fondamentalmente tre. Si pretende, da un lato, che Israele, data la sua natura di “focolare nazionale” del popolo ebraico e la storia recente di quel popolo, non sia riducibile al modello di tutti gli altri stati, sia comunque un qualcosa di più e di diverso, per cui le critiche che si rivolgono al suo governo, alla sua politica e all'ideologia su cui si fonda rischiano di imboccare la china scivolosa dell'antisemitismo. D'altro canto, si fa notare come la partecipazione a una fiera del libro (o l'invito a parteciparvi) non possono essere considerati, in sé, una manifestazione politica, godendo la letteratura di un ben riconosciuto statuto di autonomia da quell'ambito e guai se no. Si osserva, infine, che anche in caso di gravi dissensi con la controparte il dialogo è sempre cosa utile, anzi, lo è soprattutto allora, nel senso che con chi in tutto concorda con noi non c'è bisogno di discutere affatto e la pace, notoriamente, la si può fare solo con i nemici. L'invito a Torino, quindi, sarebbe, oltre a un degno tributo ad autori del livello di David Grossman, Amos Oz e Abraham Yehoshua, una tipica offerta di dialogo, un contributo, quasi, alla pace nella regione, nonché, come leggo sul sito della Fiera, una occasione “per discutere e mettere a fuoco anche il modello di una convivenza possibile”.
    Mah. Sono tutte, a prima vista, buone ragioni, ma devo confessarvi che non mi convincono. A partire, naturalmente, dall'ultima: non è facile capire quale modello di convivenza si pensi di “mettere a fuoco” dando la parola a una soltanto delle parti in causa. E anche la ragionevolezza degli altri argomenti, così come ve li ho esposti, è solo apparente. L'accusa di antisemitismo, certo, è particolarmente infamante e quando si parla di queste cose serve sempre a spiazzare i propri interlocutori, ma non si può pretendere che basti evocarla per interrompere qualsiasi possibile dibattito sui problemi di quella parte del mondo. Anzi, proprio perché la considero tale (e per me, naturalmente, la rifiuto), non mi stancherò mai di affermare il diritto di dire tutto quello che ritengo di dover dire su Israele, sul suo governo, che considero disdicevole, sulla sua opinione pubblica, in cui mi sembra allignino spinte molto pericolose, e sui suoi intellettuali, che trovo, in genere, desolatamente corrivi. In fondo, il contrario della discriminazione è l'uguaglianza e l'uguaglianza non ammette privilegi.
    Quanto all'autonomia delle belle lettere, poi, sappiamo tutti che si tratta solo di una, sia pur rispettabile, petizione di principio, dati gli stretti rapporti che intercorrono tra letteratura e ideologia e l'opportunità del dialogo non è un argomento che si possa seriamente invocare in un contesto che è stato concepito e strutturato in termini di onoranza e celebrazione. Gli israeliani, che festeggiano in quest'anno il cinquantenario della fondazione del loro stato, hanno parecchi argomenti da invocare in proprio favore, ma più che con noi devono discuterne con i loro fratelli palestinesi, che in quel processo sono stati così drammaticamente coinvolti.
    Tutti, in realtà, hanno le proprie ragioni. Ma credo valga la pena di affermare sommessamente, una volta di più, che l'essere stati discriminati e perseguitati, in persona propria o dei propri maggiori, non può essere considerato una specie di scusante, una autorizzazione a discriminare o perseguitare qualcun altro, quale che ne sia il motivo. Rappresenta, se mai, un'aggravante, perché chi agisce in quel modo dimostra di non aver saputo elaborare la propria esperienza a livello generale, di essere accecato da quella sorta di “sacro egoismo” ottuso che, nei rapporti tra i popoli, non ha mai provocato altro che disastri e contro il quale bisogna essere sempre disposti a mobilitarsi.
    Certo boicottare un'istituzione culturale (o proporre di farlo) fa una certa impressione. Sembra tutta un'altra cosa che non rifiutarsi, tanto per fare un esempio, di comperare la Coca Cola. Ma va anche detto, una volta per tutte, che il boicottaggio non può essere identificato con il rifiuto o con la censura, non significa voler mettere il bavaglio a qualcuno, impedendo a lui di esporre i propri motivi e a chi lo desidera di ascoltarli. È soltanto una forma di lotta nonviolenta in cui certi soggetti decidono di astenersi, anche a proprio eventuale danno, da taluni comportamenti e attività. Nessuno, a quanto mi sembra di capire, chiede che l'iniziativa torinese sia annullata e che gli eminenti letterati invitativi siano pregati di restare a casa loro. Vengano pure, figuriamoci, ma ci si consenta di non andarli a sentire. Diranno senz'altro delle cose interessantissime sul loro paese e le sue dinamiche interne, ma dubito assai che parleranno della situazione attuale di Gaza, del blocco del processo di pace, della colonizzazione dei Territori e di simili piacevolezze. Il che, naturalmente, può togliere a molti di noi il desiderio di andarli a sentire. Tutto qui.

    24.02.'08