Quando, anni fa, frequentavo la leggendaria sezione C del liceo “Berchet”,
qui a Milano, il professore di filosofia era solito assicurare a me e ai
miei compagni che l’imperativo morale in Kant, è “formale” e “categorico”
e quando si rendeva conto, dalla sfumatura vitrea del nostro sguardo, che
i due termini non ci dicevano un gran che, spiegava che il maestro
di Königsberg voleva semplicemente dire che il valore morale di un’azione
non dipende dal suo campo di applicazione (da quella che gli scolastici
avrebbero definito la sua “materia”), ma solo e soltanto dalla volontà
del soggetto di agire in modo, appunto, morale, adeguandosi a quel “tu
devi” che parla imperioso nel cuore di ognuno. La spiegazione,
naturalmente, ci appariva ancora più oscura della proposizione originaria,
il che costringeva il poveruomo a ulteriori, faticosi chiarimenti. Ci
voleva tanto a capire che la virtù nasce solo dalla volontà di essere virtuosi?
Che gli altri pur legittimi fini che l’uomo può proporsi nel proprio
agire con il valore morale non c’entrano una beata fava? Che obiettivi
quali l’utilità, il diletto, l’affermazione di sé, tutte queste cose
qui, afferiscono a una sfera diversa e chi li privilegia prende inevitabilmente
una brutta strada? Guardate, ragazzi, vi dico una cosa: la stessa
soddisfazione che si prova quando si compie una buona azione, in sé, con
la morale non c’entra nulla. Il tipo, come avrete capito, con Kant
ci azzeccava pochissimo: era un vecchio signore devoto ai preti, al catechismo
e a san Tommaso e non era mai tanto a suo agio come quando poteva spiegare
che la ricerca del piacere, sotto qualsiasi forma, anche la più spiritualizzata,
foss’anche quella del piacere dell’onestà, andava accuratamente evitata,
pena le conseguenze peggiori. Per noi, che, sulla scelta tra piacere
e virtù ci sentivamo, in qualche modo, più incerti, la conclusione era
abbastanza ovvia: se la morale escludeva così rigidamente qualsiasi ipotesi
di gratificazione, voleva dire che per essere davvero morali in qualcosa
bisognava smenarci. Una concezione affittiva dell’etica, dunque,
che a Kant avrebbe fatto venire, come minimo, l’orticaria, ma, in fondo,
con la tradizione cattolica e la dottrina del peccato originale andava
abbastanza d’accordo e a quell’insegnante non doveva spiacere più che
tanto. D’altronde, idee del genere erano largamente diffuse nel
paese e forse non si sono ancora esaurite.
Ripensavo a quegli insegnamenti lontani mentre,
l’altro giorno, raccoglievo le carte e le idee in vista della dichiarazione
dei redditi. È da anni, ormai, che quel fondamentale, ma non entusiasmante
momento della vita del cittadino ci viene, come dire, ingentilito dalla
possibilità di fare del bene a costo zero. Nata dalla necessità di
finanziare la Chiesa cattolica senza suscitare anacronistiche proteste
di stampo laico, la cosiddetta “scelta della destinazione dell’otto per
mille” permette ormai di trasferire una quota del proprio reddito tassato
a pie organizzazioni che se ne serviranno per gli usi più commendevoli.
Sono pochi (i cattolici – appunto – e qualche altro) che intendono
utilizzarlo, almeno in parte, per le proprie necessità di culto e di organizzazione
e anche loro preferisco proporsi con immagini affatto profane, come gli
spot in cui sciami di allegri negretti dimostrano al vivo quanto fa bene
la Chiesa anche sotto il profilo mondano. Tutti gli altri possibili destinatari
assicurano, per quanto vagamente incongruo il proposito possa sembrare,
che non terranno una lira per sé, che tutto finirà in ospedali, in cura
degli anziani, in assistenza all’infanzia, in sostegno dei bisognosi,
in conforto dei miseri… Molti garantiscono, a nostra maggiore tranquillità,
che rinunceranno anche al meccanismo, francamente truffaldino, di ripartizione
delle destinazioni non espresse in base alla percentuale di quelle espresse,
per cui a non barrare nessuna casella si finisce per dar soldi, comunque,
alla Chiesa. E per chi con le Chiese non vuole avere proprio a che
fare, o ritiene comunque meritevoli di sostegno anche i soggetti laici,
da quest’anno c’è la possibilità di destinare un ulteriore cinque per
mille ad altre cause meritevoli, finanziando il volontariato e le attività
senza fini di lucro anche al di là delle mediazioni ecclesiali. Basta
firmare la casella e inserire nell’apposito spazio il codice fiscale del
beneficato prescelto.
La scelta, bisogna dire, è assai vasta e le
sollecitazioni sono parecchie. La necessità di far conoscere la propria
ragione sociale e il proprio numero di codice costringe i soggetti interessati,
religiosi o profani che siano, a una intensa opera di propaganda. Tra
spot radiofonici e televisivi, messaggi elettronici a pioggia e comunicazioni
cartacee a domicilio, il contribuente ha come l’impressione di vivere,
in questi giorni di maggio, nel bel mezzo di una specie di supermarket
virtuale dell’opera buona. Gli si dà la possibilità scegliere, in
un certo senso, tra i tanti problemi irrisolti che la nostra società
esprime, tra bisogni, dolori e disagi di ogni genere, ma tutti parimenti
meritevoli da essere alleviati. E se ciascuno vanta la bontà o l’utilità
o la necessità del proprio progetto, tutti insistono, più o meno, sulla
gratuità dell’offerta. Quell’otto, cinque o tredici per mille se
non lo destini a qualcuno lo pagherai comunque in tasse, perché nessuno
te lo sconterà dalla cifra dovuta all’erario, per cui, suvvia, cosa ti
costa darlo a me? Ne farò, credimi, il miglior uso.
Ecco, non so a voi, ma a me tutto questo un
po’ di fastidio lo dà. E non capisco neanch’io bene perché. Per
un certo tempo ho creduto dipendesse da quei lontani fraintendimenti kantiani,
da quel principio del “qualcosa bisogna rimetterci” di cui vi dicevo:
una beneficenza che non ti costa niente, secondo quella logica, finisce
per essere in qualche modo sospetta. Ma si tratta di una logica –
diciamolo pure – un po’ a pera e la soluzione, naturalmente, va cercata
altrove. Anche perché, in ultima analisi, di elargizioni che non
costano niente proprio non ne esistono. Quei soldi che vanno alle
chiese e agli enti senza fini di lucro da qualche parte verranno comunque:
usciranno, per la precisione, dal bilancio dello stato, che, destinandoli
ai soggetti indicati, esplicitamente o implicitamente, dai cittadini, non
potrà ovviamente servirsene per altri usi. La scelta, in realtà,
non è quella tra dare o non dare, pagare e non pagare (che pagare si paga
comunque): è quella di chi dovrà gestire parte di quanto tu avrai pagato:
se le strutture pubbliche o certi soggetti privati, con tutto ciò che l’alternativa
comporta. Anzi, visto che l’opzione riguarda di default la dimensione
privata, e lascia quella pubblica in posizione residuale, tutto il meccanismo
si configura, in ultima analisi, come una sorta di parziale privatizzazione
del welfare. Che potrebbe essere una idea, naturalmente, visto i
non esaltanti risultati della mano pubblica come la conosciamo, ma ha anche
le sue brave controindicazioni e, in definitiva, se l’alternativa fosse
resa esplicita, in modo di poterne tranquillamente discutere, sarebbe sicuramente
meglio. Ma un’alternativa esplicita, quando si tratta di bussare
a quattrini, non ce la offrirà mai nessuno.
28.05.06