Per gli antichi, si sa, la bellezza
era una cosa importante. Nelle polis della Grecia classica, i brutti
non erano popolari. Perché un cittadino godesse dell’approvazione
di tutti, non gli bastava essere affidabile sul piano etico, fortunato
su quello sociale, generoso verso gli amici e immune da ogni invidia da
parte degli dei: doveva anche essere bello. L’aggettivo che indicava
questa difficile condizione, kalokagathòs, esprimeva in un’inscindibile
crasi i valori congiunti della bellezza e della bontà. E se qualcuno
a bontà lasciava un poco a desiderare, ma aveva in regola tutte le carte
della bellezza, l’opinione pubblica era sempre disposta a venirgli incontro.
Si narra che quando ad Atene fu ristabilita la democrazia, nel 401
a. C., il nuovo governo non mancò di far abbattere le statue dei Trenta
Tiranni, ma ne salvò una, perché il dedicatario, come racconta – credo
– Plutarco, “era un bellissimo uomo”. D’altronde già Omero ricordava,
tra i partecipanti alla guerra di Troia, un tale Neleo, che nei dieci anni
di quella spedizione non si segnalò mai per abilità strategiche o per gesti
di particolare valore guerresco, ma era, semplicemente, il più bello di
tutti gli Achei. Tanto gli sarebbe bastato per distinguersi dalla
massa e tramandare il suo nome. Omero, naturalmente, era cieco, ma
non ignorava come la controparte negativa di costui, Tersite, il
più brutto e sgraziato tra quanti si accalcavano sotto le mura fatali di
Troia, fosse un fior di mascalzone, che si permetteva di intervenire in
assemblea per parlar male dei capi e per questo gli capitò di esser preso
a legnate da Ulisse con soddisfazione generale. Solo molti secoli
dopo, un cinico come Menippo avrebbe osservato che sarebbe bastato aspettare
pochi decenni perché tra lo scheletro di Tersite e quello di Neleo fosse
difficile stabilire priorità di ordine estetico.
Oggi,
naturalmente, i criteri con cui noi definiamo la bellezza sono diversi
da quelli di Omero e Plutarco, ma quel valore – diciamolo – non ci è
indifferente. Chiunque, uomo o donna, sia stato dotato dagli dei
di un volto o di un corpo che a quei criteri soddisfino, sa di poter godere,
nella grande gara della vita, di un certo numero di vantaggi. Nel
nostro mondo, per avere successo la bellezza forse non basta, ma certamente
aiuta.
Quello
che al nostro mondo manca, purtroppo, è la capacità di accettare sé stessi
tipica degli antichi. Per un motivo o per l’altro, la nostra ammirazione
della bellezza non è mai completamente esplicita. È come se, in un
certo senso, ce ne vergognassimo. Con la stessa logica per cui nelle
opere d’arte cerchiamo dei significati che vadano al di là del loro essere,
appunto, opere d’arte, ai belli, chiediamo, per poterli appieno ammirare,
di essere (anche e soprattutto) qualcosa d’altro. Persino dalle
candidate al titolo di Miss Italia pretendiamo che siano, oltre che belle,
colte, salvo poi porgli, per stabilirlo, dei quesiti talmente idioti che
loro stesse finiscono per adontarsene.
Così,
del bel sindaco di che i leader della sinistra hanno scelto perché contrapponga
il fascino della sua persona a quello delle ricchezze dell’avversario,
oggi qualcuno si sforza di assicurarci che non è solo bello. Che
molti e più significativi sono i motivi per cui dovremo schierarci al suo
fianco. Che si tratta di un politico che nel ruolo attuale ha ben
operato e quindi offre garanzia di fare altrettanto in quello futuro. Di
un personaggio che, pur avendo maturato esperienza, è, al tempo stesso,
per storia ideologica e personale, libero dagli errori del passato e dei
suoi fantasmi. Di un uomo che non avrà forse le competenze tecniche
del suo ex concorrente, ma tanto si sa che in Italia le competenze tecniche
ai politici fanno più male che bene. Di un laico ben accetto al Vaticano,
che è cosa che a un sindaco di Roma non nuoce e a un capo del governo italiano
meno ancora.
Non
sarò certo io a mettere in discussione tutte queste doti, anche se sarebbe
facile rilevare che della benevolenza curiale è bene fidarsi il meno possibile,
che aver fatto bene una cosa non abilita a farne un’altra affatto diversa
e che difficilmente si può considerare una new entry della politica chi,
in venti anni abbondanti, è stato, oltre che sindaco, dirigente di più
partiti, deputato e, persino, ministro. Di tutto questo si può discutere
e – suppongo – si discuterà, ma adesso non è il caso. Dobbiamo
fare tutti uno sforzo di sincerità e ammettere senza inutili infingimenti
che il sindaco di Roma è stato scelto come ultimo baluardo del centro sinistra
perché è bello e come tale, in questa nostra società dell’immagine, ha
molte più probabilità di farcela dei tanti sgorbi competenti e sagaci che
gli si potrebbero opporre. Tanto sappiamo tutti che, come al Cristiano
del Cyrano di Bergerac, non gli mancherà certo qualcuno in grado di suggerirgli,
al bisogno, le frasi ben tornite e le affascinanti promesse che a ogni
pretendente si addicono.
E non fate, soprattutto, i moralisti.
Come mossa politica, l’operazione sindaco bello non sarà forse esaltante,
ma è perfettamente lecita. Lo sa anche Berlusconi, che, pur provvisto
com’è di altre frecce al suo arco, non ignora l’importanza di quel valore
e infatti cerca anche lui di sembrare – poveraccio – più bello che può.
Che tutto questo, in ultima analisi, significhi considerare l’elettorato
come composto da una massa di imbecilli del tutto indifferenti ai programmi
e agli interessi concreti dei gruppi sociali e pronti a votare il primo
bel bambolotto che gli si offre, be’, non è cosa che possa impressionarci.
Che i programmi in Italia non valgano la carta su cui sono scritti
e che gli interessi che tutti i governi tutelano siano sempre gli stessi,
è largamente noto. E comunque di un elettorato che conferma regolarmente
il potere a una classe dirigente come la nostra si può pensare davvero
di tutto.
* * *
Oh, a proposito. Avrete notato,
spero, che la conferma definitiva della scelta di Rutelli non la si è avuta
in qualche sede politica o istituzionale, come la tanto attesa convention
degli eletti dell’Ulivo, che, a questo punto, si limiterà ad acclamare,
all’uso bulgaro, un candidato unico. L’annuncio è stato dato nel
corso di una trasmissione televisiva, come per farci capire che in quella
sede e non in altre (e in base a quei valori) si svolgerà la contesa.
E se l’interessato, purtroppo, non c’era, a commentare l’evento è stata
chiamata la Miss Italia in carica, come se la presenza della Bellissima
per definizione, potesse fungere da accettabile supplenza per il Bellissimo
assente. E siccome la brava giovine, pur trattata da tutti con una
certa fastidiosa condiscendenza, non ha detto, quando l’hanno lasciata
parlare, delle cose insensate, forse i cervelloni dell’Ulivo potrebbero
cominciare a chiedersi se non valga la pena di saltare il fosso una volta
per tutte e di candidare direttamente lei.
01.10.’00