Forse converrete anche voi che il commento più appropriato
a quello sgradevole balletto giornalistico parlamentare che è imperversato
in questi giorni sul tema della grazia ad Adriano Sofri e compagni resta
la vignetta di Vauro sul “manifesto” di martedì scorso: quella in cui
il solito omino dall’aria incazzata, nei pressi di un tetro edificio che,
a giudicare dall’unica finestrella a sbarre, è evidentemente una casa
di pena, grida, facendosi portavoce con la mano, “Brutto guerrafondaio,
vieni fuori che ci hai rotto le balle”. Non è una battuta spiritosa,
lo ammetto, non fa ridere e non è nemmeno molto corretta politicamente,
ma ha il vantaggio, se non altro, di affrontare un argomento reale. Che
nel contenzioso politico ideologico della sinistra (o della ex sinistra,
se preferite) sia presente da tempo una voce alla quale, per evidenti motivi,
non è possibile rispondere è, di fatto, un problema che merita di essere
affrontato. L’ex leader di “Lotta continua” non rappresenta certo
il primo esempio di intellettuale che partecipa al dibattito dei tempi
suoi da dietro le sbarre – potremmo citare, tanto per fare dei nomi a
caso, quelli di Tommaso Campanella e Pietro Giannone – ma nessuno di costoro,
anche a prescindere dai motivi che determinarono il loro stato, viveva
in un paese dotato di un codice penale moderno e di una Costituzione che
prescrive l’obbligo di finalizzare le pene alla rieducazione del condannato,
come fa la nostra all’art. 27. E se pensate che Sofri non sia dentro
per motivi politici, ma perché lo hanno giudicato, a torto o a ragione,
colpevole di un grave fatto di sangue, be’, so che fa mostra di sostenerlo
anche lui, ma io, personalmente, continuo a non crederci.
Gli altri discorsi
che abbiano sentito in merito, pro o contro che fossero, continuano a provocare
una straordinaria impressione di futilità. Perché quando si parla
di grazia poco contano le speculazioni sulla opportunità che essa sia o
non sia richiesta dall’interessato, o sull’atteggiamento che all’interessato
meglio si addice, e meno che mai sul significato che la concessione assumerebbe
in relazione alle sue passate vicende giudiziali e penitenziarie. È
ovvio che un atto di clemenza si può applicare solo a chi è stato considerato
colpevole di qualcosa e che chi è disposto a concederlo lo farà perché,
per certi motivi suoi, è convinto dell’opportunità che le conseguenze
afflittive della relativa condanna siano sospese. Libero poi costui
di cercarsi gli appoggi e i sostegni che crede: in Italia, come altrove,
quel potere spetta in via esclusiva al capo dello stato, ma se un capo
dello stato, non importa se per prudenza, saggezza o pusillanimità, non
ha cuore di infrangere la prassi che lo vuole subordinato di fatto all’iniziativa
del ministro guardasigilli, non gli si può chiedere di farlo senza concedergli
almeno una spintarella legislativa. Il coraggio, come ricordava don
Abbondio, se uno non ce l’ha non se lo può dare, e, d’altronde, non è
detto che i tentativi in merito debbano riuscire sempre. Non riuscirono,
ricorderete, al presidente Cossiga, che, pur balengo qual era, di coraggio
istituzionale non mancava, ma quando provò a concedere motu proprio la
grazia “al dottor Renato Curcio”, come diceva lui, si trovò contro mezzo
mondo, a partire dal ministro competente (era, se ben ricordo, un certo
Martelli) e dovette abbozzare.
Certo, è disdicevole
che oggi si pensi di ricorrere, una volta di più, a una legge ad personam
(com’è sicuramente la prevista legge Boato), ma di leggi ad personam è
piena la nostra storia parlamentare ed è ancora più disdicevole che con
la persona di chi sta in galera da una decina di anni, con la prospettiva
di passarcene altri dodici, ministri e potentati giochino a ping pong per
i propri interessi politici. Io non so se l’elettorato (di destra
e di sinistra) è davvero convinto della necessità di tenere in prigione
quanta più gente possibile come sembrano ritenere i suoi rappresentanti,
ma è certo che lo spettacolo di una classe politica che non si stanca di
intrecciare i propri eterni giochini sulla pelle dei detenuti, lusingandone
le aspettative per poi lasciarle bruscamente cadere, com’è già successo
con l’indegna farsa dell’amnistia, dell’indulto e dell’indultino, è
particolarmente disgustoso. E visto che, esternazioni a parte, l’atteggiamento
del ministro Castelli è, in sostanza, lo stesso che assunse, a suo tempo,
l’allora ministro Fassino, ammetterete che di motivi per essere disgustati
ce ne sono abbastanza.
Sarebbe bello, in mancanza di meglio, potersi consolare
con una risata. Ricorrendo, magari, visto che le battute dei vignettisti
non fanno ridere, a quelle dei ministri in carica. In effetti, un’uscita
come quella del noto Gasparri, quello dell’omonima legge, che ha avuto
occasione di dichiarare che la grazia a Sofri comporterebbe “un teorema
di attacco alla magistratura”, venendo come viene dal membro di un governo
il cui presidente ha spiegato che non si può nemmeno pensare di entrare
in magistratura se non si è un po’ fuori di testa, contiene parecchie
potenzialità comiche. Roba, si diceva una volta, da far ridere i
polli. Ma, per chi pollo non sia, è facile ritrovare in quella proposizione
tutta l’arroganza e l’illiberalità di chi altro non si aspetta dai giudici
che si accaniscono contro i suoi nemici e lascino doverosamente in pace
chi sta dalla parte sua. E anche su questa scoperta, naturalmente,
non è facile ridere.
11.01.’04