Battute che non fanno ridere

La caccia | Trasmessa il: 01/11/2004



Forse converrete anche voi che il commento più appropriato a quello sgradevole balletto giornalistico parlamentare che è imperversato in questi giorni sul tema della grazia ad Adriano Sofri e compagni resta la vignetta di Vauro sul “manifesto” di martedì scorso: quella in cui il solito omino dall’aria incazzata, nei pressi di un tetro edificio che, a giudicare dall’unica finestrella a sbarre, è evidentemente una casa di pena, grida, facendosi portavoce con la mano, “Brutto guerrafondaio, vieni fuori che ci hai rotto le balle”.  Non è una battuta spiritosa, lo ammetto, non fa ridere e non è nemmeno molto corretta politicamente, ma ha il vantaggio, se non altro, di affrontare un argomento reale.  Che nel contenzioso politico ideologico della sinistra (o della ex sinistra, se preferite) sia presente da tempo una voce alla quale, per evidenti motivi, non è possibile rispondere è, di fatto, un problema che merita di essere affrontato.  L’ex leader di “Lotta continua” non rappresenta certo il primo esempio di intellettuale che partecipa al dibattito dei tempi suoi da dietro le sbarre – potremmo citare, tanto per fare dei nomi a caso, quelli di Tommaso Campanella e Pietro Giannone – ma nessuno di costoro, anche a prescindere dai motivi che determinarono il loro stato, viveva in un paese dotato di un codice penale moderno e di una Costituzione che prescrive l’obbligo di finalizzare le pene alla rieducazione del condannato, come fa la nostra all’art. 27.   E se pensate che Sofri non sia dentro per motivi politici, ma perché lo hanno giudicato, a torto o a ragione, colpevole di un grave fatto di sangue, be’, so che fa mostra di sostenerlo anche lui, ma io, personalmente, continuo a non crederci.
        Gli altri discorsi che abbiano sentito in merito, pro o contro che fossero, continuano a provocare una straordinaria impressione di futilità.  Perché quando si parla di grazia poco contano le speculazioni sulla opportunità che essa sia o non sia richiesta dall’interessato, o sull’atteggiamento che all’interessato meglio si addice, e meno che mai sul significato che la concessione assumerebbe in relazione alle sue passate vicende giudiziali e penitenziarie.  È ovvio che un atto di clemenza si può applicare solo a chi è stato considerato colpevole di qualcosa e che chi è disposto a concederlo lo farà perché, per certi motivi suoi, è convinto dell’opportunità che le conseguenze afflittive della relativa condanna siano sospese.  Libero poi costui di cercarsi gli appoggi e i sostegni che crede: in Italia, come altrove, quel potere spetta in via esclusiva al capo dello stato, ma se un capo dello stato, non importa se per prudenza, saggezza o pusillanimità, non ha cuore di infrangere la prassi che lo vuole subordinato di fatto all’iniziativa del ministro guardasigilli, non gli si può chiedere di farlo senza concedergli almeno una spintarella legislativa.  Il coraggio, come ricordava don Abbondio, se uno non ce l’ha non se lo può dare, e, d’altronde, non è detto che i tentativi in merito debbano riuscire sempre.  Non riuscirono, ricorderete, al presidente Cossiga, che, pur balengo qual era, di coraggio istituzionale non mancava, ma quando provò a concedere motu proprio la grazia “al dottor Renato Curcio”, come diceva lui, si trovò contro mezzo mondo, a partire dal ministro competente (era, se ben ricordo, un certo Martelli) e dovette abbozzare.
        Certo, è disdicevole che oggi si pensi di ricorrere, una volta di più, a una legge ad personam (com’è sicuramente la prevista legge Boato), ma di leggi ad personam è piena la nostra storia parlamentare ed è ancora più disdicevole che con la persona di chi sta in galera da una decina di anni, con la prospettiva di passarcene altri dodici, ministri e potentati giochino a ping pong per i propri interessi politici.  Io non so se l’elettorato (di destra e di sinistra) è davvero convinto della necessità di tenere in prigione quanta più gente possibile come sembrano ritenere i suoi rappresentanti, ma è certo che lo spettacolo di una classe politica che non si stanca di intrecciare i propri eterni giochini sulla pelle dei detenuti, lusingandone le aspettative per poi lasciarle bruscamente cadere, com’è già successo con l’indegna farsa dell’amnistia, dell’indulto e dell’indultino, è particolarmente disgustoso.  E visto che, esternazioni a parte, l’atteggiamento del ministro Castelli è, in sostanza, lo stesso che assunse, a suo tempo, l’allora ministro Fassino, ammetterete che di motivi per essere disgustati ce ne sono abbastanza.

Sarebbe bello, in mancanza di meglio, potersi consolare con una risata.  Ricorrendo, magari, visto che le battute dei vignettisti non fanno ridere, a quelle dei ministri in carica.  In effetti, un’uscita come quella del noto Gasparri, quello dell’omonima legge, che ha avuto occasione di dichiarare che la grazia a Sofri comporterebbe “un teorema di attacco alla magistratura”, venendo come viene dal membro di un governo il cui presidente ha spiegato che non si può nemmeno pensare di entrare in magistratura se non si è un po’ fuori di testa, contiene parecchie potenzialità comiche.  Roba, si diceva una volta, da far ridere i polli.   Ma, per chi pollo non sia, è facile ritrovare in quella proposizione tutta l’arroganza e l’illiberalità di chi altro non si aspetta dai giudici che si accaniscono contro i suoi nemici e lascino doverosamente in pace chi sta dalla parte sua.  E anche su questa scoperta, naturalmente, non è facile ridere.

11.01.’04