Babele a Bruxelles

La caccia | Trasmessa il: 05/02/2010


    Il governo italiano – leggo su un vecchio numero di “Repubblica” – è davvero irritato con i funzionari e i dirigenti della Unione Europea. A Bruxelles e nelle altre sedi comunitarie non ci tengono proprio nel conto dovuto. Lo dimostra, con palmare evidenza, la situazione linguistica. Anche se in base ai vari trattati tutte le lingue ufficiali dei paesi membri hanno dignità pari e sono considerate “lingue di lavoro” allo stesso titolo, delle 11.511 riunioni svoltesi nell'anno 2009 il 95 per cento sono state tradotte in inglese, il 66 in francese, il 52 in tedesco, il 45 in spagnolo e solo il 43 in italiano. È vero che i danesi si sono dovuti accontentare dell'otto, ma i danesi sono danesi e l'Italia è l'Italia. Come se non bastasse, nell'ultimo concorso a 323 posti di eurofunzionario la “seconda lingua” richiesta in aggiunta a quella materna poteva essere soltanto l'inglese, il francese o il tedesco, una di quelle – cioè – che la Commissione ha (informalmente) adottato come “lingue procedurali”. Una “inaccettabile discriminazione”, secondo il nostro ministro per le politiche comunitarie, Edo Ronchi, che parla di affermazione di un “trilinguismo di fatto” contrario allo spirito e alla lettera dei trattati e preannuncia un ricorso.
    Vedremo come andrà a finire. Nel frattempo, però, bisogna ammettere che il problema delle lingue, a Bruxelles, si presenta un poco più complicato di come doveva essere ai tempi della costruzione della torre di Babele. Nei ventisette paesi che compongono l'Unione sono censiti ventiquattro idiomi, che possono essere ridotti a ventitré soltanto accorpando arbitrariamente l'olandese con il fiammingo. Ciò significa che per assicurare la traduzione estemporanea di tutti gli atti in tutte le lingue bisogna poter contare su un minimo comun denominatore, su un nucleo di base di 253 interpreti, da moltiplicare ovviamente per il nimero degli eventi e dei turni e dando per scontato che ciascuno possa funzionare, per così dire, a due sensi (dal finlandese al bulgaro e dal bulgaro al finlandese). Ne sono in servizio poco meno di 900, neanche quattro per coppia di lingue, e, naturalmente, non tutte le coppie saranno rappresentate, data l'ovvia difficoltà di disporre di specialisti in simultanee estone-maltese o lituano-gaelico. È evidente che, visto questo stato di cose, il principio della pari dignità non può che avere un mero valore teorico e che, nella pratica, ci si deve arrangiare. E per arrangiarsi l'unico metodo è quello di privilegiare gli idiomi che godono, sia pur informalmente, di più prestigio e più diffusione, quelli parlati, per intenderci, nei paesi più forti e più popolosi e già diffusi, per un motivo o per l'altro, al di fuori dei propri confini. Il trilinguismo di fatto di cui si lamenta il ministro potrà dispiacere, ma è una necessità pratica.
    Danesi, greci, olandesi, sloveni, lituani e simili minutaglie lo sanno benissimo e, in effetti, non aprono bocca di fronte alla discriminazione di cui sono vittime. Noi italiani protestiamo e minacciamo ricorsi, un po' perché la classe dirigente di cui dispomiamo, quanto a conoscenza delle lingue straniere, è notoriamente deficitaria, per cui senza interprete i nostri rappresentanti tendono a fare la figura dei polli, e un po' perché dichiararci ingiustificatamente discriminati è una componente della ideologia nazionale. Trovare delle argomentazioni di cui farsi forti non è difficile: l'italiano, si osserva, non può annoverarsi così facilmente tra i “minori”: è la lingua di uno dei paesi fondatori dell'Unione, ha un'antica tradizione di cultura alle spalle ed è, con i suoi sessantadue milioni di utenti, una delle più parlate in Europa. Che è tutto vero, naturalmente, ma anche tutto abbastanza irrilevante, visto che il passato è, appunto, passato e che sessantadue milioni sono nulla in confronto alla diffusione internazionale dell'inglese e del francese (per non dire dello spagnolo, che è trattato peggio di noi). Delle lingue esclusivamente europee, poi, il tedesco, con centoventotto milioni di parlanti, ci surclassa alla grande e ha il vantaggio extra che sono i tedeschi, alla fine, quelli che pagano i conti. Perché, stringi stringi, da che mondo è mondo si è sempre fatto così: si sono impiegate come lingue terze negli scambi internazionali quelle dei paesi più potenti, quelle che – comunque – si sarebbe dovuto adottare come lingue seconde, in riconoscimento dell'egemonia di chi, usandole, ne imponeva l'uso. Tale è il caso del latino nell'antichità e dell'inglese oggi e, tutto sommato, possiamo considerarci più fortunati dei nostri pronipoti cui toccherà, con ogni probabilità, di dover imparare il cinese.
    Stando così le cose, c'è ben poco che noi e il ministro Ronchi possiamo fare. Possiamo, al massimo consolarci, ripetendoci che l'italiano è lingua di straordinaria ricchezza e nobiltà, che funge da lingua franca nel mondo musicale (non è vero almeno da metà Ottocento, ma lo si dice sempre), che la Divina Commedia è molto più importante storicamente del Kalevala e che il nostro contributo alla comune civiltà europea, posto che di una comune civiltà europea si possa parlare, è molto più significativo di quello dell'Estonia. A sapersi accontentare, ci si consola in fretta.
    Oppure, naturalmente, possiamo ricorrere a forme di autogratificazione linguistica meno innocenti. Possiamo, per esempio, appoggiare l'iniziativa della onorevole Silvana Comaroli, della Lega, che alla Commissione Attività Produttive della Camera ha proposto un emendamento al “decreto incentivi”, per attribuire alle Regioni il potere di “stabilire che l'autorizzazione all'esercizio dell'attività di commercio al dettaglio sia soggetta” per i cittadini extracomunitari “alla presentazione di un certificato” rilasciato da “appositi enti accreditati”, che attesti “il superamento dell'esame di base della lingua italiana”. E che, in caso positivo, le stesse Regioni possano stabilire che “l'autorizzazione da parte dei Comuni alla posa delle insegne esterne a un esercizio commerciale è condizionata all'uso di una delle lingue ufficiali dei Paesi appartenenti all'Unione Europea ovvero del dialetto locale.” Due piccole vessazioni, assolutamente superflue, perché è ovvio che per gestire un negozio bisogna parlare la lingua del posto e che non si può vietare a nessuno di propagandare la propria attività nella lingua che preferisce e del resto le insegne in cinese sui ristoranti che praticano quella cucina fanno parte del panorama urbano di tutte le città del mondo. Ma due modi per affermarsi, come dicono quei tali, “padroni a casa propria”, proprio nel momento in cui ci accorge di non esserlo nella casa comune europea. Quando è giocoforza mostrarsi deboli con i forti, fa sempre piacere gonfiare i muscoli e fare i forti con i deboli.

    02.05.'10


    Nota

    I dati sullla pratica linguistica nell'Unione Europea sono tratta da un servizio sulle pagine culturali di “Repubblica” di martedì 27 aprile, pp. 29 e ss.