Asserzioni senza senso

La caccia | Trasmessa il: 04/22/2001



Tra tutte le notizie tristi che ci giungono ogni giorno dal Medio Oriente, non ce n’è una più triste – credo – di quella relativa a certe affermazioni di Shimon Peres, come le ha riferite in Italia il “manifesto” di giovedì scorso.   L’eminente uomo politico isrealiano, trovandosi in visita ufficiale in Turchia, avrebbe avuto modo di dichiarare a un quotidiano locale in lingua inglese, il “Turkish Daily News”, che gli israeliani respingono con decisione “i tentativi di creare un’analogia tra l’Olocausto e le asserzioni armene (Armenian allegations)”, nel senso che il massacro di un milione e mezzo di armeni a opera dei turchi, negli anni precedenti la prima guerra mondiale “non è stato nulla di simile all’Olocausto”, perché “quella del popolo armeno è stata una tragedia, ma non un genocidio”.   Le asserzioni armene in questione, come a dire la pretesa da parte degli armeni di oggi di far uso dei termini “olocausto” e “genocidio” anche in riferimento ai propri morti di allora vanno considerate semplicemente “senza senso (meaningless).”
        Ora, è inutile dire che la distinzione è futile e che da Peres ci si può aspettare di tutto.  Il personaggio, come gli ascoltatori probabilmente sapranno, pur essendo stato per anni un leader della sinistra laburista e pur avendo conseguito, nel 1994, un premio Nobel per la pace, sia pure a mezzadria con Rabin e Arafat, è ministro degli esteri nell’attuale governo Sharon, la cui devozione alla causa della pace non sembra, a prima vista, così assodata.  Un giudizio sulla coerenza di questo percorso politico non spetta, ovviamente, a noi, ma al popolo israeliano, che, in effetti, sul conto di Peres è sempre stato piuttosto severo, negandogli più volte l’investitura a premier e bocciandone, recentemente, la candidatura alla presidenza della repubblica.  Ma visto che l’individuo, comunque, fa parte da una quarantina di anni del ceto di governo del suo paese, le sue dichiarazioni meritano di essere prese in una certa considerazione, specialmente quando investono, come in questo caso, delle questioni di carattere generale.
        Anche lui, naturalmente, ha i suoi motivi.  La Turchia e Israele –  preziose pedine, entrambe, della strategia americana nell’area medio orientale –  sono stretti alleati e il punto di vista di un alleato va sempre tenuto in considerazione.  Il governo turco, fedele assertore del principio per cui basta sostenere che un problema non c’è per farlo sparire, ha sempre negato l’esistenza di questioni nazionali nei suoi confini presenti e passati: in particolare nega che ci sia una questione curda ora e che ci sia stata una questione armena all’inizio del secolo scorso.  I curdi, oggi, non sono una nazionalità oppressa, ma semplicemente dei “turchi delle montagne”, in rotta con il governo centrale per qualche loro oscuro motivo e gli armeni, ieri, erano soltanto dei “sudditi turchi cristiani” che combatterono contro la patria comune una sanguinosa guerra civile.  La pretesa è un po’ assurda, ma visto che i governi alleati, il nostro compreso, ci stanno (e infatti gli esuli curdi in Europa sono considerati soltanto degli immigrati turchi più o meno regolari) i turchi continuano ad avanzarla e lo faranno finché gli interessi politici e militari degli stati saranno considerati più importanti dei diritti degli individui.
        Ma sulla realtà di quel milione e mezzo di armeni massacrati non si discute e non soltanto perché è scritta sui libri di storia.  La loro morte fu una tragedia, certo, ma non nel senso di un evento doloroso e inspiegabile: fu, anzi, il frutto di una premeditata politica di snazionalizzazione cui il governo dei Giovani Turchi, che, nell’illusione di “modernizzare” il paese aveva fatto propri i principi europei della compattezza etnica, ricorse sistematicamente a partire dal 1894.  E fu un’operazione talmente ben pianificata e condotta con tanta perizia che di armeni, nei territori dell’ex impero ottomano, oggi praticamente non ce ne sono: quel popolo, di fatti, sopravvisse soltanto nelle regioni annesse alla Persia nel secolo XVII e passate dalla Persia all’impero russo nel 1828, quelle che costituiscono oggi la Repubblica di Armenia.
        Agli armeni di America, che discendono in gran parte dagli esuli scampati a quel massacro e in questi giorni strillavano come aquile contro le dichiarazioni di Peres, il consolato israeliano di Los Angeles ha risposto, con un suo comunicato, che il problema “dovrebbe essere discusso dagli storici e non dai politici”.  Probabilmente è vero.  Ma è ben triste che un politico come Peres, che parla a nome di un popolo che ha conosciuto persecuzione e sterminio, neghi, per motivi politici, la solidarietà a chi cerca, appunto, un riconoscimento di natura storica.  E che lo faccia, con implicita ipocrisia, in nome dei propri morti, perché dichiarare che quelle stragi lontane rappresentano una tragedia, ma non un olocausto, significa pretendere, stringi stringi, che l’unico, vero Olocausto, l’unico genocidio che possa essere definito tale, sia stato quello che ha coinvolto la nazione ebraica.  È un pretesa, questa, che non tutti gli ebrei, né tutti gli israeliani, per fortuna condividono, ma che caratterizza da sempre l’ideologia dominante dello Stato di Israele.  È come se l’unicità di quella terribile esperienza vada asserita e difesa perché da essa discende un’unicità, altrettanto terribile, del popolo che l’ha sofferta, che in nome di essa si arroga il diritto di considerare le proprie ragioni superiori a quelli degli altri, perché se io sono unico, anche nella sofferenza, non sono certamente tenuto a confrontarmi con te.   Il che, lo ammetterete, è davvero molto triste.
Naturalmente, il discorso, a questo punto, non si rivolge più né agli armeni né ai turchi.  Quelle affermazioni hanno un carattere squisitamente ideologico e l’ideologia è sempre il frutto di una cattiva coscienza, ma ci sarà bene un motivo se il processo di pace in quella regione è fermo da tanti anni.

C. Oliva, 22.04.’01