Credo sia all’inizio della Meditatio
Proemialis della Mathesis Biceps di Juan Caramuel che si racconta la storia
di un tale che, sentendo una pendola battere quattro colpi, ne concludeva
che evidentemente l’orologio era impazzito, visto che aveva suonato quattro
volte l’una. Il grande studioso secentesco, con quell’apologo,
intendeva mostrare come la mente umana, nel considerare le entità matematiche,
ci metta molto di suo, nel senso che Intellectus non reperit sed facit
Numeros, “l’intelletto non trova i numeri, ma li fa”, una scoperta che
basta da sola a conferirgli una posizione di rispetto tra i matematici
del suo tempo, a un livello paragonabile solo a quello di Leibniz, che
infatti riprenderà proprio da lui, un paio di decenni più tardi, i fondamenti
dell’aritmetica binaria.
Ora,
non si può certo dire che quella brillante intuizione sia entrata stabilmente
a far parte del senso comune. Tuttavia, ogni tanto si sentono delle
affermazioni che la presuppongono. Così, in questi giorni di dibattito
in tema di convivenze non matrimoniali, sarà capitato a tutti di sentir
affermare, in tono variamente solenne, che il problema in discussione non
riguardava – ne scampassero gli dei – i diritti delle coppie di fatto,
ma quelli dei singoli individui che tali coppie costituiscono. La
precisazione, che è stata accolta anche dal recente disegno di legge governativo,
intestato appunto ai “Diritti e Doveri dei Conviventi” (abbreviato
– chissà perché – in DICO e non in DIDOCO), è un po’ ipocrita,
perché serve solo a negare che una convivenza extramatrimoniale sia un
soggetto di diritto, ma sul piano logico è ineccepibile. Il Caramuel,
che era, sì, vescovo, ma non credo si occupasse di queste cose, avrebbe
al massimo fatto notare come la decisione di considerare una coppia come
un’unità indivisa o, a scelta, come l’aggregato di due entità, è di natura
puramente formale e non comporta differenze sul piano ontologico. Come
a dire che i differenti trattamenti pratici che, in un caso o nell’altro,
si ritiene di dover applicare sono puramente arbitrari.
Soltanto
l’arbitrio, in effetti, determina le condizioni che quel decreto impone
alle coppie di fatto perché i loro membri possano godere dei diritti che
vi sono previsti. Non si capisce assolutamente sulla base di quali
criteri si sia ritenuto opportuno richiedere un periodo di convivenza continuata
di almeno nove anni perché scatti il diritto alla successione legittima,
di uno di tre perché si determini l’obbligo dell’assistenza in caso di
separazione e di uno di chissà quanto per la reversibilità di eventuali
pensioni Difficile sfuggire all’impressione che si tratti, in buona
sostanza, di clausole punitive, di un surplus di obbligazioni atte a far
scontare agli interessati la supposta precarietà della propria unione,
come un’ordalia da superare per dimostrare nei fatti la “serietà” di
un impegno, che lo stato, in assenza delle sperimentate ritualità matrimoniali,
non si sente di accettare per buono senza un adeguato periodo di prova.
In
questo modo, nonostante la preoccupazione ossessiva di non dare vita a
“nessuna figura giuridica alternativa al matrimonio”, come la ministra
Bindi, poveretta, ha ripetuto un numero spropositato di volte senza riuscire
a persuadere coloro che più di tutti persuadere voleva, si è finito per
creare esattamente quella “famiglia di serie B” che tutti, a parole,
volevano evitare. Alle coppie di fatto viene proposta una convivenza
sub judice, i cui comportamenti, perché producano effetti, dovranno essere
debitamente monitorati e registrati, e poco conta, se non sul piano del
ridicolo, che la relativa dichiarazione all’anagrafe sia “contestuale”,
ma non congiunta, come a dire che ciascuno degli interessati potrà provvedervi
in proprio, salvo l’obbligo di comunicarlo in forma ufficiale all’altro,
che mi sembra proprio una trovata graziosa e tale da suscitare più equivoci
e più contenziosi di quanti qualsiasi avvocato matrimonialista mai potrebbe
sognare. E il tutto, in sostanza, per perpetrare una ingiustizia,
perché di coppie possono essercene tanti tipi, naturalmente, ma di individui,
rispetto al godimento dei diritti riconosciuti, ce n’è un tipo solo e
il fatto che agli uni venga riconosciuto quello che agli altri viene negato
rappresenta una violazione di quel principio di uguaglianza su cui dovrebbero
fondarsi le società democratiche.
Ma
che volete che sappiano di uguaglianza gli adepti di una gerarchia?
11.02.’07
Nota
La Mathesis Biceps di Juan Caramuel
fu pubblicata nel 1670, probabilmente a Satriano, dove l’autore reggeva
la cattedra episcopale, che avrebbe poi cambiato con quella di Vigevano.
La Meditatio Proemialis citata nel testo è leggibile oggi, in facsimile
e in una mia vecchia traduzione dal latino, in Aldo Parea, Pinuccia Soriano,
Paolo Terzi, L’aritmetica binaria e le altre aritmetiche di Giovanni Caramuel,
vescovo di Vigevano, Accademia Tiberina, Facoltà di Scienze Applicate Moderne,
sezione di Vigevano (edito a cura del Centro Vigevanese per la Ricerca
Scientifica pura ed applicata) , s.d.